Grande è la confusione nel campo di Agramante, alias nei palazzi della politica. Tagliare o non tagliare, e se sì come e dove ? Nel palazzo che da qualche tempo frequento, quello di Montecitorio, la proposta avanzata da Enrico Letta di abolire drasticamente il vitalizio a partire da questa o dalla prossima legislatura suscita più malumori che consensi. Passa di mano in mano la lettera indirizzata ai colleghi da Gerardo Bianco, una persona per bene che presiede l’Associazione degli ex parlamentari, nella quale si rivendica il diritto al vitalizio non come un privilegio ma come una suprema garanzia costituzionale, strettamente connessa alla tutela dell’indipendenza del parlamentare, in modo che le preoccupazioni per la vecchiaia di domani non condizionino la sua indipendenza di oggi. In Consiglio regionale è di avantieri la proposta Pd di abolire la pensione e il cumulo degli emolumenti, ma è apertissimo il dibattito sugli altri benefits: numerosi, costosi, non sempre necessari. La verità è che l’azienda della politica spreca troppo, e non solo in stipendi e pensioni. Quanto costano i palazzi sontuosi, gli studi, gli apparati, i ristoranti esclusivi? Troppo, indubbiamente. Risparmiare si può, e aggiungerei che si deve, data la situazione del Paese. Ma attenti a non risolvere tutto in una campagna mediatica contro la casta. I costi della politica sono strutturali e dipendono da cause serissime: il numero eccessivo dei rappresentanti (nazionali, regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali), la loro discutibile produttività, l’eccesso di finanziamento succhiato dai partiti (i cui bilanci restano assolutamente generici, per non dire fasulli), la fastosità barocca di tutti i riti della politica. Stiamo realizzando il federalismo, si dice. Ma lo stiamo facendo – come al solito – all’italiana: moltiplicando e aggiungendo, invece di semplificare e sottrarre. Le province, ad esempio, saranno davvero così fondamentali? E dovranno proprio essere eguali in tutte le regioni e in tutti i contesti com’era ai tempi di Cavour? In Sardegna, tanto per dire, forse le stesse cose le potrebbero fare i consorzi tra comuni, con partecipazione gratuita di amministratori locali. Le prefetture, in tempi di federalismo, dovranno ancora mantenere tutta la loro possente organizzazione burocratica? Non potrebbero ridursi invece ad agili uffici di coordinamento sul territorio? E la macchina della Regione, la tante volte criticata ma mai riformata burocrazia regionale, quanto ci costa? Quanto lavora realmente? Quanto produce? Le riforme amministrative in Italia sono la cosa più difficile da farsi. Ci cadono sopra i governi infatti. Eppure, se si sceglie un modello organizzativo fortemente decentrato, è indispensabile ripensare tutta la rete delle istituzioni, e riformarla. Pensiamo agli enti, regionali, provinciali, comunali. Alle tante poltrone e poltroncine. Alle nomine lottizzate per partito e per corrente di partito. Ai fiumi di danaro che si rovesciano ogni anno sui portaborse, sul sottobosco dei clientes degli assessori, sulle centinaia di individui che “vivono di politica”. Ecco, appunto: di politica non si dovrebbe vivere, o almeno non per un’intera esistenza. La politica è una nobilissima attività ma dovrebbe essere, come si diceva un tempo (non è detto che allora lo fosse, ma almeno lo si diceva) un servizio pubblico temporaneo. In democrazia – giustissimo – il tempo dedicato alla attività politica istituzionale si deve pagare equamente, perché altrimenti si ritornerebbe all’epoca di Giolitti, quando in politica c’entrava solo chi poteva permetterselo, cioè i ricchi. Ma la politica “dalla culla alla bara”, saltellando da un incarico all’altro per atterrare alla fine (non si sa poi con quali competenze) nei consigli di amministrazione dei vari enti partecipati, non dovrebbe più essere consentita. Più che l’eccesso di retribuzione è quest’ultimo aspetto che indigna: l’Italia è in crisi anche perché le sue élites (quelle politiche e le altre) non cedono mai il passo. Eterne, intramontabili, tenacemente incollate al potere. Immarcescibili. (di Guido Melis, Deputato PD - Editoriale pubblicato da "Sardegna 24")