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Autoesotismo dei narratori sardi
 

E’ stato trattato dai più accorti critici della Deledda il tema di una Sardegna che la Deledda presentavada Roma al resto d’Italia e del mondo, in troppo grande misura solo una suaSardegna, anzi una loro Sardegna, cioè una Sardegna adattata a quelli che leipensava fossero le aspettative e i gradimenti dei non sardi. E quali maipotevano essere i punti di riferimento, le aspirazioni e i risentimenti che, perquanto incerti, spingevano una signorina sarda di fine Ottocento a fare dellaBarbagia il terreno in cui mettere a cultura le sue smisurate e precociaspirazioni alla gloria letteraria?
Ci sono precedenti, certo, e numerosi, che aiutano a comprendere. Ma se lagiovane e poi anche matura Grazia Deledda si è “inventata” una sua Sardegnaletteraria, bisogna dire che l’operazione, legittima e anzi tipica e forseindispensabile di ogni “invenzione” poetica, le è riuscita al meglio,eccome. Così bene le è riuscita la costruzione di una sua Sardegna soprattuttoper i non sardi, che ancor oggi chi narra di Sardegna deve in qualche modo farei conti con lei, e forse non può andare molto in là senza seguire almeno inparte le sue orme, tanto che suona stonato e fuori tempo perfino per i sardi. Manon è il caso di ripetere che la fortuna di pubblico e di critica dellaletteratura fatta dai sardi, anche presso i sardi dipenda soltanto dalla capacitàdi “dir di Sardigna” secondo aspettative esterne scontate e di maniera, cheinsomma agli scrittori sardi ancora oggi non resti da fare altro da quel chealla Deledda è riuscito di fare finora meglio di tutti, eccettuati il suoconterraneo Salvatore Satta, Emilio Lussu e Giuseppe Dessì, che per i mieigusti lo hanno fatto meglio di lei.
Come scrive Alberto M. Cirese,  “vista la forte capacità  dipersuasione che la Deledda ha saputo conferire alla sua immagine dell’isola,non mi pare affatto che sia uno sminuire la scrittrice se al dibattito sulle suequalità letterarie  e sentimentali si sostituisce o almeno si affiancaquello sul suo ruolo politico-culturale: se si esamina il tipo di operazione chela scrittrice  ha condotto in relazione ad una sua precisa situazione nonsoltanto “letteraria”, e cioè specificamente come intellettuale sarda alleprese con il problema di stabilire il contatto e la presenza culturaledell’isola entro il quadro nazionale postunitario, a partire da una distanza ,da una estraneità  e da una alterità  che erano enormemente piùaccentuate  che non per qualsiasi altra  situazione regionaleitaliana, Sicilia compresa”. E siccome questa rappresentatività e alteritàvalevano altrettanto se non di più in ambito europeo, e più latamente almenonell’ ambito del mondo occidentale dove la Deledda ha ampliato il suopubblico, la presenza culturale dell’isola nel mondo attraverso la suanarrativa era certamente una sua più o meno esplicita e programmaticaconsapevolezza.
Consapevolezza che deve essere anche cresciuta di fronte ai flop di tutti i suoiromanzi non sardi, come nel caso di romanzi come Nel deserto o di Il paese delvento e più tardi nel caso di Annalena Bilsini e degli altri romanzicontinentali: tanto che nonostante la sua insistenza sui romanzi non sardiGrazia Deledda ha infine prodotto l’autobiografismo sardo più genuino e piùesplicito in Cosima (da cui poi è stato spesso visto nascere e crescere ilpotente autobiografismo nuorese del suo concittadino Salvatore Satta de Ilgiorno del giudizio). Con i suoi romanzi “non sardi” Grazia Deledda hapagato il prezzo di un insuccesso forse immeritato a quella forte,caratterizzante e programmatica rappresentatività  sarda della suanarrativa, che forse alcuni autori sardi continuano ancora oggi a pagare, ponendo ancora più chiaramente il problema se sia peggio, o meglio, il successoancora dovuto all’autoesotismo oppure l’insuccesso che la sua mancanza osuperamento a volte  pare toccare a certe narrazioni di sardi di oggi.
I tempi sono parecchio e forse radicalmente mutati nell’isola e nel mondo.Eppure, in tempi di nuovi esili in migrazioni planetarie dalle grandi campagnealle grandi metropoli del mondo, non siamo più bisognosi, in modo tantoesclusivo ed escludente, di luoghi figurati intatti come quella Sardegnaletteraria selvaggia ed esoticheggiante, che soprattutto Grazia Deleddacontribuisce ancora a diffondere nel mondo, facendosi imitare a lungonell’isola e, mi pare, anche fuori, se non altro sfruttando ancora oggi leattrattive  dell’autoesotismo, mentre è costitutiva dellamondializzazione una pressante richiesta globale di particolarità locali,quando cioè la globalizzazione sembra cercare scampo e senso nell’esotismo, ea volte lo fa molto male, anche in letteratura. Gli scrittori di oggi, anche inSardegna, a volte si chiedono più chiaramente di altri quanto scampo ci sia inun’auto-esotizzazione che, legittimemente fittizia, forse è meno efficace delcercare di mostrarsi come si sa che si è, che è già cosa vaga provvisoria eproblematica. Come mostra la vicenda di un bel libro recente, Accabadoradi Michela Murgia. Per il quale si potrebbe dire che in Sardegna l’eutanasiamolto probabilmente non ha prodotto una “professionalità” come l’acabbadora,ma solo una figura come l’acabbadora, cioè  una  personificazionefantastica di un problema sempre e dappertutto sentito e patito.  Data pureper scontata la non esistenza della figura della acabbadora, ciò che questiracconti ci chiedono è concentrarsi sull´eventuale visione dell’eutanasia daparte della collettività, approfondire questo “bisogno di crederci”, epotrebbe condurre anche ad un giudizio di valore sull’eutanasia stessa. Perchèil bisogno di ricorrere all’invenzione di questa particolare e mitologicafigura? Si tratta per lo meno della personificazione  in panni sardi di unproblema sempre e dappertutto sentito e patito. E si potrebbe considerare unametabolizzazione di una responsabilità morale, individuale e collettiva, comequella del volere porre fine a sofferenze finali, trasfigurandola in un“mestiere” e una figura fantastica come s’acabbadora? Può essere questauna buona definizione del fenomeno, vecchio e nuovo ma di ogni tempo e luogoumano, sempiterno e ubicuo. Un modo di porre su basi solide il risultatoimmaginario sardo di un problema reale come quello dell’eutanasia, sempre edappertutto praticata in modi vari, modi piuttosto femminili che maschili. Senzadare per scontata la non esistenza de s’acabbadora, per non fare lo stessopercorso cieco di chi invece ne dà per scontata l’esistenza, ciò che si sa,e cioè l’esistenza di qualcosa di dicibile come desiderio universale dieutanasia, mostrato anche dalla figura de s’acabbadora, è invece uninteressante tema letterario, che Michela Murgia ha risolto con accorta ambiguità:trattando una mitica personificazione dell’eutanasia, mostrando la potenzamitopoietica della Sardegna tradizionale che ha creato la figura dellaacabbadora , personificazione mitica potente di un problema universale, masfruttando anche quel tanto di esotismo, per lei autoesotismo, con impressionidi realismo e di vera e ben situabile esistenza di una tale figura, mentre eraed è lì davanti a tutti qui come altrove, sempre, almeno finora, l’esistenzareale del bisogno di eutanasia, che in Sardegna è diventata una figura diracconto che vuole essere veritiero. Se oggi da noi come in altri luoghi simili,spesso gli scrittori sentono ancora più o meno l’obbligo di fare i conti conla propria terra, oppure altrettanto rifiutandosi di farlo, per forsealtrettanto forti pulsioni rispetto allo sguardo auto-esotico rivolto ai propriluoghi, tuttavia questi luoghi anche letterariamente non possono non essere erestare veri e propri luoghi d’origine. E quindi mitici. I nostri mitid’oggi sono tanti e pure alternativi. C’è da scegliere. Tanto sembranodurare poco, molto meno di un tempo.

Di: Giulio Angioni
NUMERO /unico
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