Doveva essere una grandecerimonia, quella organizzata per il 21 settembre dal Comando dellaBrigata Sassari per celebrare la prima volta dei fanti sardi in Afghanistan,piena di bandiere e di divise, di genitori e di fidanzate in ansia per i propricari in partenza, con gli immancabili generali e isottosegretari di turno, pronti a raccontare la favola della missione di pace edei soldati-costruttori di scuole. Niente di nuovo sotto il sole della retoricache ha scaldato questi otto anni di guerra. Invece non c’è stata nessunaparata, il 21 settembre. I seicento militari sardi del 151° reggimento diCagliari, con i loro colleghi del 152° di Sassari e con i genieri delReggimento guastatori di Macomer, sono partiti per Kabul in silenzio, senzanessun festeggiamento. La grande celebrazione è stata annullata dopo che si èdiffusa la notizia della morte dei sei soldati italiani del 186/mo Reggimentodella Brigata Folgore, in seguito a un attentato kamikaze che ha colpito unconvoglio della Nato sulla strada che porta dal centro cittadino all’aeroportodella capitale, Kabul, attentato nel quale hanno perso la vita anche 15 civiliafghani e sono state ferite almeno altre sessanta persone, tra cui donne ebambini. Persone di cui non sapremo mai il nome, trasformate, affinchél’orrore della guerra possa essere meglio digerito dall’opinione pubblica,nel mero dato statistico degli effetti collaterali politicamente accettabili.Tra i militari italiani uccisi c’era un giovane ragazzo sardo di Solarussa, ilcaporal maggiore Matteo Mureddu. E ’stato ricordato dal governatore dellaSardegna come un giovane “figlio di pastore, figura che personifica, al di là,i grandi e perenni valori della tradizione, della famiglia e del lavoro dellanostra comunità”. Molto più semplicemente, senza bisogno di scomodare ivalori e la tradizione della Sardegna, Matteo Mureddu, figlio di una famigliamodesta, ha probabilmente dovuto scegliere la carriera militare più per lanecessità di assicurarsi un posto di lavoro sicuro che per “ardoremilitaresco”. Così come, forse, i suoi colleghi che hanno perso la vitainsieme a lui, e gli altri ragazzi che sono partiti in questi giorni con laBrigata Sassari per l’Afghanistan, figli di quel meridione dove, come haricordato Saviano in suo bell’articolo sul quotidiano Repubblica, fare ilsoldato è un’alternativa molto più dignitosa che “che lamentarsi delladisoccupazione quasi fosse una sventura naturale e del mondo che non gira comedovrebbe, come di una condizione immutabile”. E’ passata più di unasettimana dall’attentato di Kabul in cui hanno perso la vita i sei soldatiitaliani. e la retorica dell’ “onore agli eroi” ha sepolto ogni tentativodi riflessione sul ruolo dell’Italia in Afghanistan e sulla responsabilità diuna classe politica rimasta ferma ad otto anni fa, alla dottrina Bush, con inostri “ragazzi” impegnati a distribuire democrazia così come isoldati americani del dopoguerra distribuivano chewing gum. Si è detto che ilmomento del lutto impone un doveroso silenzio che non lascia spazio alledomande. Invece è proprio in questi momenti di dolore che diventa necessarioottenere delle risposte. Chi ha ancora il coraggio di chiamare la partecipazioneitaliana in Afghanistan una missione di pace? Non la signora Greca, la madre delgiovane caporale sardo ucciso, che ha urlato a gran voce il suo disgusto perquesta ipocrisia. Non la chiamavano missione di pace i sei militari uccisi e,tantomeno, la chiamano missione di pace i militari della Brigata Sassari partitiqualche giorno fa. Loro sanno bene che in Afghanistan c’è la guerra, ungoverno fantoccio che controlla a malapena la capitale, un territorio vastissimocontrollato dai talebani e una popolazione civile fiaccata dall’occupazione,da rastrellamenti, dalle bombe e dalle stragi di civili. L’opinione pubblicaitaliana l’ha già dimenticato. Il 28 settembre sono morti 30 civili,tra i quali donne e bambini, in un attentato contro un autobus nella provinciameridionale del Kandahar. L’autobus è saltato in aria su una mina artigianalenel distretto di Maywand. Sulla stessa strada, che collega Helmand a Kandahar,un’esplosione analoga lunedì ha ucciso tre persone. Vanno a farecompagnia ai 1.500 civili uccisi in attentati nel solo 2009. Ma l’Afghanistanè lontano e la notizia è degna di un piccolo trafiletto di agenzia. Siamo inguerra da otto anni, anche se la chiamano “peacekeeping”, ma non è poi cosìimportante. Fino alla prossima bara con il tricolore, fino al prossimo funeraledi stato.
Articolo di Manuela Scroccu da:IL MANIFESTO SARDO