Grazie al
prezioso lavoro dello storico Professor Tonino Budruni che ha ricostruito
minuziosamente nella «Rivista della Sardegna» Ichnusa n.10, maggio/giugno,
anno 5 del 1986, oggi siamo a conoscenza dei «Giorni del massacro ».
Era il 1911, anno in cui molti sardi riponevano nell’emigrazione la speranza
di una vita migliore, la quale palpitava, fiduciosa e intrepida, sul posto di
lavoro. Tuttavia, nel luglio di quell’anno per quattrocento figli della
Sardegna, il sogno si frantumò nel suolo italico in una realtà di persecuzione
e d’orrore. Essere sardo e per questo pagarne il prezzo, subirne il razzismo
di persona, sperimentarlo sulla propria pelle fu un’esperienza, purtroppo, di
molti di questi nostri conterranei. Nella storia che segue vedremo la xenofobia
antisarda manifestarsi in tutta la sua animale violenza contro quei
lavoratori «diversi».
Erano anni di progresso tecnologico in cui la ferrovia ne rispecchiava il mito,
attraversandone l’Italia. A costruire le migliaia di chilometri di linee
ferroviarie, altrettante migliaia di braccia. E fu così che circa mille sardi,
quasi tutti minatori del sud Sardegna, furono impiegati per la costruzione della
linea Roma – Napoli. Assumere sardi era allora conveniente, poiché lavoravano
sodo, in cambio, a parità di mansione, di un salario inferiore a quello degli
operai continentali, loro colleghi. Quattrocento operai isolani, furono,
quindi, stanziati temporaneamente nel comune di Itri, all’epoca in provincia
di Caserta e oggi di Latina, ossia nella cosiddetta: «Terra di lavoro».
Gli abitanti di Itri, però, fomentati e spalleggiati indirettamente dai mass
– media italiani che descrivevano i sardi come una «razza inferiore e
delinquente per natura», sollevavano pregiudizi razzisti contro i
sardi. A servirsi di questa opinione diffusa e consolidata in una costante
tensione sociale fu la camorra, nel momento in cui la sua autorità fu sconfitta
dagli involontari rappresentanti del Popolo Sardo, la quale riuscì a
trasformare tale convinzione in sentimento di odio sanguinario antisardo.
L’organizzazione criminale, alla quale interessava solo il denaro, che ruolo e
quali interessi poteva nutrire in questo scontro di culture? La risposta è
semplice e nello stesso tempo terrificante: ai lavoratori sardi si
voleva imporre il cosiddetto «pizzo». Ma alla camorra, che assumeva
la posizione del «padrone», si contrapponeva il netto rifiuto, pacifico ma
fermo, di quei baldi lavoratori di pagare. Questa decisione fu presa, sia per
l’innata fierezza della cultura «De s’omine», sia per la matura coscienza
dei diritti loro spettanti, anche se non ancora conquistati, in quanto
lavoratori. I criminali, quindi, per scongiurare il contagio di tale
rivoluzione, puntarono sugli anzidetti sentimenti degli itrani (cosi si fanno
chiamare gli itriesi) per cacciare i sardi da «Terra di lavoro».
La furia fanatica razzista, organizzata minuziosamente, si compì
tragicamente nei giorni di mercoledì e giovedì 12 e 13 luglio del 1911. Al
grido: «Morte ai sardegnoli», i nostri antenati furono, per quei due giorni,
le prede indifese della «caccia al sardo».
Nel primo giorno un gruppo di operai fu insultato e provocato nella piazza
dell’Incoronazione, l’epicentro della storia. Al grido «Fuori i
sardegnoli», la parola d’ordine per richiamare gli itrani in quel
luogo, a centinaia accorsero armati, attaccando da ogni parte i nostri
conterranei inermi. In una ridda di sorpresa, di urla, anche le autorità locali
aprivano il fuoco promettendo immunità ai compaesani, non di meno fecero i
carabinieri, i quali spararono sui sardi in fuga. Quel giorno, il selciato
italico s’impregnò del primo sangue dei martiri trucidati barbaramente. Gli
operai scampati alla persecuzione xenofoba si rifugiarono intanto nelle campagne
circostanti.
L’indomani, i lavoratori rientrarono nel paese per raccogliere i loro
fratelli caduti come soldati in guerra, ma la «fratellanza operaia», «la pietà
cristiana», si evidenziarono utopiche mete. Entrarono nell’abitato e
nuovamente divampò la triste sinfonia di morte col grido di battaglia: «Fuori
i sardegnoli». Gli itrani convergendo in massa, passarono prima in una bottega,
nella quale si distribuivano armi per l’occasione. Qui si avvertiva: «Prendete
le armi e uccidete i sardi». La seconda giornata di caccia all’«animale
sardo» era aperta! Gli itrani, ancora accecati dall’odio razzista e non
contenti del sangue già versato, si scagliarono nuovamente contro i lavoratori
sardi inermi e, con più raziocinio criminale del giorno prima, ancora
ammazzarono.
In queste due giornate furono massacrate una decina di persone, tutte sarde. Il
numero esatto delle vittime non si venne mai a sapere, poiché gli itrani
trafugarono numerosi cadaveri e feriti moribondi per nascondere il numero esatto
delle vittime. Alcuni operai sequestrati subirono la tortura e una sessantina
furono i feriti, di cui, diversi, molto gravi, perirono in seguito. Molti sardi
scampati alla strage furono arrestati con la falsa accusa di essere rissosi.
Mentre, altri, per la stessa accusa, furono espulsi da quella «terra del lavoro»
e rispediti in Sardegna. Pagarono caro il prezzo della loro provenienza e
cultura, ma la camorra, da quei fieri sardi, non vide neppure un soldo. Per
questi fatti non un itriano fu punito. E il grave avvenimento fu subito
occultato.
L’avvocato Guido Aroca scrisse: «Se alcunché di simile si fosse
verificato ai danni siciliani o romagnoli, l’Italia tutta sarebbe oggi in
fiamme».
Dopo quei giorni dolorosi, i sardi, per il tornaconto bellico italiano del ’15
’18, diventeranno la «razza guerriera ed eroica» che salvò le sorti
dell’Italia. Divulgare oggi questa storia, è, innanzitutto, un dovere verso
quei martiri antesignani della lotta sindacale, ma, altresì insegna a
riconoscere e denunciare forme attuali di razzismo mascherate con il
belletto, le quali si configurano nella moderna forma di
colonizzazione politica e culturale. Il sacrificio dei nostri antenati
non ha avuto giustizia e in continente si sostiene ancora che «I
sardegnoli se la son cercata».
A distanza di anni da quei fatti, la forma mentis ferocemente antisarda
è stata dichiarata lucidamente dallo stesso «Stato di diritto» italiano, nel
momento in cui, con tracotanza, istituzionalizzò il proprio pregiudizio e
razzismo contro i sardi (e solo contro i sardi) emigrati in s’Italia, con una
schedatura poliziesca di uomini, donne, vecchi e bambini. La registrazione ebbe
inizio nel 1984, all’insaputa degli stessi sardi, con la regione Lazio per poi
essere estesa ad altre regioni fino ad una data incerta degli anni ’90.
Frantz Fanon aveva pienamente ragione: «Un Paese colonialista è un Paese
razzista!». I sardi, per un complesso di colpa indotto da anni di
colonizzazione culturale, accettarono passivamente di essere considerati, nel
loro insieme e capillarmente, potenziali criminali.
I nomi conosciuti delle vittime assassinate
Antonio Baranca di Ottana
Antonio Contu di Ierzu
Antonio Arras di ?
Efisio Pizzus di ?
Giovanni Mura di Bidonì
Giovanni Marras di ?
Giuseppe Mocci di Villamassargia
Salvatore Cuccuru di ?
Sisinnio Pischedda di Marrubbiu
Baldasarre Campus di ?
[operaio] Deligios di Ghilarza