L'Unione Europea ha
fissato, attraverso un tormentato itinerario legislativo, gli spazi minimi che
gli allevatori devono assicurare ai polli da carne e alle galline ovaiole. Può
darsi che qualcuno ne sorrida: è umano. Se avesse visto le gabbie o i capannoni
in cui i polli sono stipati in 20 e più in un metro quadro, e anchilosati, e
avvelenati dall’ammoniaca delle loro deiezioni accumulate, ne avrebbe pena, e
avrebbe pena di sé e delle uova e dell’arrosto che mangia. Grazie alla norma
dell’Europa, sullo spazio di un foglio protocollo conducono la loro esistenza
tre galline. Non è facile da figurarsi, dite? Infatti. Poco fa la Corte europea
per i diritti di Strasburgo ha stabilito che anche gli animali umani in gabbia
–nel caso, un detenuto rom bosniaco, Izet Sulejmanovic- debbano avere un
proprio spazio minimo, senza di che chi li reclude è colpevole di trattamenti
inumani e degradanti: lo Stato italiano è stato condannato a risarcire il
detenuto con la cifra di mille euro. Simbolica, ma neanche tanto. La Corte
europea ritiene che un essere umano detenuto debba disporre di sette metri
quadri: non c’è un solo detenuto comune in Italia che goda di una simile
vastità. Nelle galere italiane oggi la densità per capo –diciamo così, vale
per ogni bestiame- è spesso di un metro e mezzo: il mistero fisico si risolve
grazie alle cataste verticali di corpi, brande a castello dal pavimento al
soffitto. In piedi, si sta a turno. I quasi 70 mila detenuti italiani trattati
in modo disumano e degradante (e non è uno snobismo europeo: un autorevole
giudice milanese ha detto che la detenzione a San Vittore –sei in 9 metri
quadri- è tecnicamente una “tortura”, e lo stesso dicono suoi colleghi un
po’ ovunque) costerebbero “simbolicamente” in contravvenzioni 70 milioni
di euro. Bazzecole, certo.
Fra domani, sabato e domenica quasi duecento parlamentari e consiglieri
regionali, istigati dalla instancabile Rita Bernardini e dai radicali,
visiteranno altrettante prigioni. Eserciteranno un potere ispettivo che solo
pochi fra loro compiono abitualmente. Confido che, qualunque motivazione li
abbia spinti al piccolo sacrificio ferragostano, passino per le galere come un
bambino passerebbe per un allevamento intensivo di polli, e ne escano turbati.
Per quante mani d’intonaco e di cipria siano state date alla vigilia,
troveranno un paesaggio umano che li disgusterà, li farà vergognare e li
commuoverà. Vecchi materassi stesi in terra, ferri roventi, rubinetti asciutti,
pareti di doccia incrostate di unto e di sporco, uomini ammassati alla rinfusa e
a volte solidali, spesso estranei e insofferenti gli uni degli altri, diversi
per età, per nazione, per attese, per malattie. (Ai polli si mettono degli
occhialini perché non perdano tempo a beccarsi fra loro). Troveranno uomini
accasciati nei loro letti, che volteranno la testa contro il muro per non
vederli e non farsi vedere, e altri uomini che andranno loro incontro per dire
loro una storia, troppe storie in una volta. Troveranno giacigli di fortuna (di
fortuna!) allestiti in terra nello spazio fra due brande d’infermeria, o nelle
camerette di sicurezza senza finestre e senza niente, fatte per le attese brevi,
e mutate in celle, con qualche giornale a far da cesso comune. Troveranno gente
che piange, e anche gente che ride: perché gli animali umani sono sorprendenti,
e i visitatori potranno specchiarcisi. Non molti anni fa i parlamentari andavano
in galera, o erano lì lì per andarci, non da visitatori. Durò poco, e fecero
presto a dimenticarsene. Sarebbe bello che se ne ricordassero, domani e dopo. E
quando votano leggi che suonano alto, e all’altro capo sputano
quell’ammucchiata di corpi da magazzino, corpi a perdere. Quasi trentamila
persone –persone- in un anno entrano ed escono dalla galera per un periodo
inferiore a tre giorni. Che impresa, eh? 63.800 detenuti per una capienza
effettiva, come denunciano i sindacati di polizia penitenziaria, di 39 mila 813.
E’ superata di alcune migliaia perfino la “capienza teorica”: quella della
metropolitana nelle ore di punta, per intenderci, quando i buttafuori smettono
di spingere dentro la gente. In California, la Corte suprema ha imposto di
buttare fuori dal carcere un quarto dei detenuti. Da noi si buttano dentro a
palate, anche col tutto esaurito.
Nei reparti giudiziari, dove stanno gli imputati, in gran maggioranza ormai
stranieri,i visitatori usino l’estate e l’ostensione dei corpi svestiti, per
contare i tagli freschi e le cicatrici che i presunti innocenti hanno addosso.
Scherzino coi bambini delle madri detenute, chiedano loro: “Come ti chiami?”
Sarà bello. Ascoltino un po’ di racconti di botte date e prese, di
ammazzamenti suicidi e morti. Cento morti in sei mesi, 35 suicidi. E dei
“suicidi” senza verità. Ci sono decine di famiglie, in Italia e fuori, cui
è stato detto che un loro caro si è ammazzato, e non riescono a crederci. E
anche quando i loro sospetti non fossero fondati, resta che il carcere uccide.
“Un detenuto a Rovereto si uccide a poche ore dall’arresto per futili
infrazioni. La famiglia dubita. Che cosa è successo a Stefano Frapporti?”
“Sarà l’autopsia a chiarire la causa della morte di Salah Ben Moamed,
tunisino di 28 anni, trovato ieri mattina senza vita... “, e di tanti altri
come lui. Autopsie non chiariscono. La madre di Marcello Lonzi, 29 anni, non ha
mai creduto alla morte naturale di suo figlio in una cella di Livorno, nel 2003,
con 4 mesi da scontare. La madre di Niki Aprile Gatti, 26 anni, sanmarinese,
arrestato per truffa, incensurato, non può credere al suicidio di suo figlio
nel carcere di Sollicciano, in cui era arrivato da cinque giorni, un anno fa. Il
cappellano di Rebibbia ha invitato anche il Papa: “Venga –gli ha scritto-
qui si muore”. L’elenco è troppo lungo. Ma le possibilità di informarsi su
quello che avviene oltre il muro si sono enormemente arricchite. All’attività
di associazioni come Antigone, a Radio Carcere, alla pubblicazione di libri
schietti come “Diritti e castighi”, di Lucia Castellano, direttrice del
carcere di Bollate (con la giornalista Donatella Di Stasio) si è aggiunta una
fonte preziosa come il notiziario quotidiano in rete di “Ristretti
orizzonti”.
Spero che faccia un caldo record, a ferragosto, durante la visita ispettiva più
imponente della storia d’Italia. “I disagi che la stagione estiva e le alte
temperature producono all’interno delle sezioni detentive possono causare un
aumento del rischio di atti autolesionistici e/o autosoppressivi”. Lo ha
scritto il ministero, che a volte dice cose sensate, benché in un linguaggio
che Dio lo perdoni, e benché senza alcuna conseguenza pratica. L’associazione
dei Veterinari lo dice meglio: “Se la densità è molto elevata, durante i
mesi estivi si rischia anche il surriscaldamento ed un elevato numero di polli
può perdere la vita per stress da caldo”. Si ammucchia gente in galera,
fatalisticamente, come si fa con le altre discariche: e se arriverà il
disastro, qualcuno provvederà. Magari è proprio quello che si vuole. Nei
giorni scorsi proteste e mezze rivolte sono avvenute in una quantità di
carceri, ma non ne avete sentito parlare. Cose riservate, segreti di topi.
“La sindrome della morte improvvisa è una delle principali cause di decesso
dei polli in Europa. I sintomi sono improvviso e vigoroso sbattere d’ali,
contrazioni muscolari, perdita dell’equilibrio, accompagnati spesso da
vocalizzazione; quindi il volatile cade di schianto e muore”.
Adriano Sofri
(Dalla Repubblica di oggi).