Perché, se aborto è omicidio, l’RU486
va vietata e la 194 “attuata”? In merito
alla decisione dell’Agenzia Italiana per i Farmaci di approvare
l’immissione in commercio della RU486, monsignor Elio Sgreccia, presidente
emerito della Pontificia Academia pro Vita ha affermato che dal punto di
vista canonico l’assunzione di tale farmaco “è come un aborto
chirurgico”.
Anche se la frase del religioso ha una chiara vocazione anti-abortista, per
certi versi essa involontariamente fa segnare un punto, sulla questione del
farmaco abortivo, proprio alla sponda “pro-choice”.
Se l’aborto farmacologico “è come un aborto chirurgico”, allora come
si spiegano le polemiche aggiuntive e specifiche che sono state fatte in
questi giorni sull’argomento da parte dei “pro-lifers”?
Evidentemente la vera
questione morale è il diritto soggettivo all’interruzione della
gravidanza, cioè se l’aborto debba essere considerato un omicidio –
pertanto da rigettare da un punto di vista liberale – oppure se
rappresenta una legittima scelta personale fondata sul diritto individuale
alla proprietà del proprio corpo.
Nel momento in cui prevale – come nella legislazione del nostro paese
– questa seconda opzione, le modalità con cui l’aborto viene
implementato possono essere un legittimo argomento di dibattito medico, ma
sono evidentemente irrilevanti dal punto di vista etico.
E tuttavia oggi i
“pro-lifers” entrano in campo sulla questione dell’introduzione della
RU486 senza nemmeno accorgersi che si stanno avventurando su un percorso per
molti versi per loro sdrucciolevole.
Inevitabilmente, infatti, entrare nel merito dei metodi abortivi o
addirittura della loro sicurezza dal punto di vista della madre sposta
l’attenzione dalla questione del diritto all’aborto in quanto tale.
In realtà la ragione per
cui il campo confessionale entra nel dibattito su una questione che
teoricamente non dovrebbe interessarlo è che probabilmente è consapevole
che affrontare il cuore della questione aborto sarebbe una strategia
perdente.
Di conseguenza gli anti-abortisti compiono la scelta intellettualmente meno
trasparente di combattere piccole battaglie secondarie, anche a costo di
incorrere in non poche contraddizioni.
La questione etica, del
resto, è chiara. L’omicidio è omicidio. E le parole hanno conseguenze.
Se l’aborto è omicidio, le donne che abortiscono sono delle assassine.
Devono essere arrestate e punite con il massimo della pena. Nessuna scusante
è possibile. L’essere più o meno depresse non autorizza, infatti, ad
uccidere il proprio bambino.
L’aborto andrebbe vietato sempre, anche nei casi di stupro, di incesto o
nei casi in cui sia in pericolo la vita della madre. Se è omicidio,
chiaramente, è omicidio sempre.
D’altronde se l’Italia non punisce, bensì avalla l’aborto al punto
persino di effettuarlo nelle strutture pubbliche, allora è – come la
Germania nazista – uno stato genocida, avendo soppresso dal 1978 ad oggi
oltre cinque milioni di bambini.
Evidentemente si tratterebbe di un qualcosa di orrendamente grave e la
posizione dei cattolici non potrebbe certo limitarsi ad un gioco di fioretto
parlamentare, come se la posta in gioco fosse una qualsiasi delle questioni
minori oggetto di dibattito politico.
Per un anti-abortista coerente nessun tipo di complicità sarebbe possibile
con un simile paese criminale e non vi sarebbero reali alternative
all’esilio a Dublino o alla clandestinità e alla lotta di liberazione.
E’ palese che la coerenza antiabortista avrebbe esiti talmente inaccettabili e inattuabili che relegherebbe i pro-lifers ad una posizione di totale marginalità ed ostracismo culturale, paragonabile a quella di qualche estremista rosso o nero.
Se la strategia
“pro-life” non è esattamente questa, ma al contrario quella ben più
soft di politici come Eugenia Roccella o Paola Binetti, le ragioni sono
sostanzialmente due.
La prima è che verosimilmente i pro-lifers non sono affatto intimamente
convinti che l’aborto sia omicidio – e quindi che negli ospedali
italiani siano volontariamente sterminati ogni anno 150 mila bambini – ma
più pragmaticamente derubricano essi stessi l’aborto ad una questione di
minore rilevanza, una di quelle su cui si fanno ogni giorno battaglie
politiche e parlamentari senza che sul loro esito si perda necessariamente
il sonno.
La seconda è che a tutto aspirano i pro-lifers italiani meno che a
interpretare una dissidenza di idealisti rivoluzionari in contrapposizione
totale al sistema. Tanto è vero che pur definendo l’aborto un
“omicidio”, difendono la legge 194 che lo ha giuridicamente
“legalizzato”, anzi, chiedono addirittura di attuarla e di rispettarla,
in particolare nelle disposizioni che, a loro dire, impedirebbero nel nostro
paese l’utilizzo dell’RU486.
Insomma, i pro-lifers italiani non vogliono fare la rivoluzione, ma puntano
più concretamente a far parte di una coalizione politico-culturale di
successo e possibilmente di governo, pazientemente costruita raccogliendo
tutti gli appoggi utili al caso, inclusi naturalmente quelli vaticani.
E’ chiaro che per questo scopo la battaglia contro l’aborto non occorre
che sia vinta. E’ sufficiente che sia combattuta. Quello che serve è
semplicemente dare alla CEI ed ad una porzione dell’elettorato il segnale
di “essere sul pezzo”.
E’ il modo per presidiare un’area di consenso, per accreditarsi come
referenti politici della Chiesa cattolica ottenendo da essa anche
un’implicita legittimazione per la propria parte politica che potrà
essere spesa anche in un’ottica più ampia.
I sostenitori della
posizione “pro-choice” dovrebbero approfittare della sostanziale
incoerenza della posizione anti-abortista per acquisire un vantaggio
decisivo nel dibattito culturale sull’argomento.
Le discussioni sollecitate dai cattolici sull’opportunità o meno di
utilizzare la RU486, sui suoi rischi per la salute della donna, sulle
modalità di assistenza in vista dell’”espulsione” sono infatti
perfettamente lecite, ma esse devono rappresentare l’implicito
riconoscimento che l’aborto non è un omicidio e che solo per questa
ragione è possibile un dibattito trasparente sugli strumenti
per attuarlo.
Se ci si pensa, persino politiche – sovente sostenute da parte cattolica
– di aiuto economico alle donne che vorrebbero abortire sono possibili
solamente a partire da una visione pragmatica del problema dell’aborto.
Simili scelte hanno senso ad esempio qualora il focus sia la salute
psicologica della donna oppure il sostegno al tasso di natalità, ma non
sarebbero mai e poi mai
giustificabili sul piano filosofico se si partisse dal presupposto che
l’aborto è omicidio.
Infatti in tal caso aiutare economicamente una donna che minacci di abortire
equivarrebbe moralmente a dare soldi a chi punti la pistola ad un ostaggio
minacciando di premere il grilletto.
E’ chiaro che solo il superamento delle ipocrisie concettuali che purtroppo pesano su questo delicato argomento potrà consentire lo sviluppo di una dialettica sana sugli aspetti medici, sociali e psicologici dell’interruzione della gravidanza che abbia l’obiettivo di definire – sulla base di principi di buon senso – le forme in cui essa può essere praticata nel nostro paese. In questo senso il contributo liberale al dibattito dovrà essere attento alla difesa della privacy e alla libera scelta nell’assunzione delle responsabilità parentali.
Auguriamoci che tali condizioni di agibilità si rivelino possibili, anche nell’attuale maggioranza di governo, oggi purtroppo schierata (almeno formalmente) “perinde ac cadaver” sulle posizioni confessionali.
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