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Perchè non mi piace la Piazza S. Satta
 
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Sono trascorsi ormai più di due anni da quando, in un saggio sull’architettura nuorese, dissi peste e corna dell’attuale Piazza Sebastiano Satta. Una successiva meditazione sul medesimo tema mi induce, ora, a ritenere che di quella stessa piazza non dissi allora male abbastanza. Cercherò, quindi, di farlo adesso.

Intendiamoci. Non dissi male di Costantino Nivola, lo scultore che a suo tempo adempì all’incarico di curarne l’arredo ornamentale, così impiantandovi quel tipo di sovrastrutture che, peraltro, a Nuoro non riscossero e non riscuotono l’unanime consenso. Ma Nivola non è responsabile di quella sorta di aborto urbanistico definibile unicamente come un vacuum urbano, creato mediante continuazione di un’attività demolitoria iniziata nell’Ottocento con l’abbattimento di un antico edificio adibito a carcere e completata poi, negli anni Sessanta del secolo scorso, da quegli Amministratori cittadini che ordinarono la demolizione del settecentesco palazzo ove per alquanto tempo visse Menotti Gallisay, nonché di un delizioso palazzetto, questa volta ottocentesco, nel cui interno venivano custoditi gli antichi documenti da trasferire all’Archivio di Stato. Peste e corna, se mai, andavano dette di quegli Amministratori, i quali credevano che, nell’ambito dei centri urbani già edificati, le piazze potessero essere create ex novo semplicemente demolendo un certo numero di case, dotando poi il risultante vacuum di selezionate sovrastrutture.

Le piazze degne di questo nome, però, sono cosa ben diversa dalla creazione di quel vacuum di cui ho or ora parlato. Che cosa infatti esse siano, nella realtà, è presto detto: secondo la più semplice delle tante definizioni possibili (l’una equivalente all’altra, o di essa complementare) sono i luoghi creati appositamente da avveduti urbanisti perché in esse i cittadini possano ritrovarsi al fine di ostentare, gli uni al cospetto e nei confronti degli altri, un’acquisita coscienza della loro identità collettiva.

E’ chiaro, quindi, che di Nivola non può essere detto male, essendo lui responsabile solo delle sovrastrutture, non già della struttura architettonica. E ciò che caratterizza la piazza, che la rende degna di questo nome, nonché idonea al bisogno sociale di cui si è detto, è la struttura, non già la sovrastruttura.

Forse non tutti sanno che cosa sia la struttura architettonica di una piazza: è certo solo che non lo sapevano i sullodati amministratori. Conviene allora, per poter continuare proficuamente il discorso, ricominciare quest’ultimo daccapo e, con la santa pazienza, ripercorrere un iter culturale che sembra smarrito. Occorre, cioè, prendere le mosse dalla più accessibile definizione del termine “piazza”.

Marco Romano, trattando proprio questo specifico tema, ha di recente (scrivendone in modo ampio sulle pagine de Il Domenicale del 31 gennaio 2009) dato della piazza una definizione dalla quale ben possono essere prese le mosse per il proficuo completamento di un discorso pedagogicamente utile. La seguente: “spazio libero circondato e delimitato da case abbastanza alte, perché alla vita collettiva occorre riconoscibilità e intimità”.

Non uno spazio semplicemente vuoto, quindi, ma un quid consistente nella tangibile proiezione esterna dell’intimità della vita privata, del vissuto cioè che promana da quelle abitazioni che con la loro ben curata, prospiciente facciata sono idonee a creare una sorta di salotto buono da tutti frequentabile.

Ma perché case alte?

La risposta è ovvia. Oltre un evidente motivo di eleganza, vale la considerazione che ad affacciarsi sullo spiazzo antistante non sono soltanto le esterne strutture architettoniche dei palazzi, ma specificamente ciascuna delle abitazioni che compongono le strutture medesime. E queste devono essere numerose, ossia tante quante ne occorrono perché sia reso visibile il simbolo di un’ampia partecipazione collettiva alla vita pubblica del rione, intrisa di sana, eloquente umanità.

Un’autentica commistione, insomma, di vite individuali e di vita collettiva, quella che solo un considerevole numero di esperienze squisitamente umane riesce a esprimere attraverso un’immagine tutt’altro che anonima. Non a caso, infatti, Marco Romano pubblica, a corredo del proprio enunciato, una significativa foto raffigurante la Piazza del Campo di Siena.

Non mi pare, allora, di dover andare molto oltre con le enunciazioni teoriche, se non per accennare al tema (non trascurato, certo, da Marco Romano nel suo qui citato scritto) inerente alla differenza concettuale tra spazi pubblici e spazi collettivi.

Differenza concettuale, s’è detto; e ciò perché tra i due termini del raffronto intercorre il divario che separa il genus dalla species. Laddove è chiaro che lo spazio collettivo (species) idealmente rientra, bensì (ma senza esaurirlo), nel più ampio concetto di spazio pubblico (genus); il quale ultimo, quindi, comprende nella propria gamma anche gli spazi che, non rientrando in quella species, non dovrebbero mai essere definiti “piazze” (non a caso, infatti, gli avveduti urbanisti li denominano “piazzali”).

Ed è qui importante conformarsi a tale distinzione, perché proprio essa ci riconduce al tema iniziale, quello inerente al caso della Piazza Sebastiano Satta. La quale, in base a quanto si è detto, non dovrebbe neppure essere definita “piazza”, trattandosi appunto di un semplice “piazzale”, perché verso di essa non converge affatto quel coacervo di eloquenti frammenti di umanità che solo le autentiche abitazioni (per di più orientate con le loro facciate su tutti i lati dello spazio vuoto) sono capaci di esprimere.

Nel detto spazio, in concreto ricavato mediante inconsulte demolizioni, solo una piccola parte del complesso è delimitata da abitazioni; neppure rispondenti, peraltro, a una tipologia capace di rispecchiare, da sola, quell’etnia che invece, mediante le sovrastrutture, si è in qualche modo cercato di raffigurare.

Magari, in altro scritto, esprimerò ancora una volta il perché - pur con tutto il rispetto per gli estimatori dell’opera di Costantino Nivola (e tra essi Vittorio Sgarbi) - a me quella sovrastruttura non piace.

Mario Corda

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PERCHE’ NON MI PIACE LA PIAZZA SEBASTIANO SATTA 
di Mario Corda  

Parte 2

Quando fu completato il lavoro di posa in opera delle sovrastrutture , le rocce “al naturale” che ornano la Piazza Sebastiano Satta, i nuoresi, sempre pronti all’intelligente sarcasmo, fecero circolare una spiritosa barzelletta.

Due donne olianesi, transitando in quel sito, si fermano a contemplare l’opera.  

- Guardate, comare, che bella piazza hanno ricavato.

- Più bella, comare, sarà a lavoro finito, quando la completeranno mediante asportazione di quelle rocce.

Le rocce, inutile dirlo, sono i grandi massi granitici, magnificamente traforati dall’erosione dell’acqua in chissà quale era geologica, durante la quale essi palesemente giacevano in un fondo marino. Divelti, poi, da non so quale plaga dell’Isola, ove la Natura li aveva collocati (appunto in quella originaria superficie che una successiva era geologica aveva fatto emergere) e ove facevano bellissima mostra di sé come autentico monumento naturale, furono trasportati a Nuoro per essere destinati all’ornamento della piazza, in attuazione del progetto ideato dallo scultore Costantino Nivola.

Quello stesso progetto che, una volta realizzato, ha incantato Vittorio Sgarbi (palesemente d’accordo con la prima delle due donne olianesi della barzelletta, ma in disaccordo con l’altra) e che a me, invece, francamente non piace. Pur con tutta la consapevolezza del diverso peso che potranno avere i due contrastanti giudizi.

In un saggio sull’architettura nuore di qualche anno fa trovato modo di esternare le ragioni del perché non apprezzo il risultato estetico di quella singolare, inusitata progettazione; così come nel precedente scritto sul medesimo tema, apparso più recentemente in questa rivista on line, ho indicato le specifiche ragioni per le quali non ho mai apprezzato la struttura della sullodata piazza (frutto di due scriteriate demolizioni di edifici, non già - come dovrebbe essere per una piazza che aspiri ad essere un qualcosa di più che un semplice, anonimo “slargo destinato all’uso pubblico” - dell’intelligente progettazione di un urbanista specializzato). In questa stessa sede, oggi, vorrei appunto chiarire il perché, con riferimento a quella discussa piazza, non apprezzo neppure il risultato del progetto ideato dallo scultore Nivola.

La prima ragione, non di poco conto (a mio avviso), è quella che scaturisce dal rilievo in base al quale le rocce in questione stavano bene dove stavano, dove la Natura le aveva collocate. In tutta modestia, io, per il mio modo di concepire le bellezze naturali e di rispettare l’avvenuta attuazione del cosiddetto Disegno Intelligente, non le avrei mai divelte dal luogo ove si trovavano. Non so quale esso fosse (né voglio saperlo, perché so che, transitando eventualmente in quel luogo, proverei dispiacere nel constatare il vuoto che è stato creato); ma è certo che le rocce de quibus agitur costituivano parte integrante di un paesaggio che, in quanto tale, andava giuridicamente protetto (articolo 9, secondo comma, della Costituzione) e che doveva essere protetto, ad opera della Pubblica Amministrazione, anche mediante l’adozione di semplici ma efficaci reprimende, visto che il Ministero dell’Ambiente non era stato ancora istituito (lo sarà solo più tardi, in virtù della provvidenziale legge 8 luglio 1986, n.349).

Ma lasciamo da parte le disquisizioni giuridiche, e occupiamoci di quelle estetiche, nel cui ambito mi sarà consentito di esternare le mie ragioni del preannunciato dissenso.

Le rocce di cui parlo, quando si trovavano al loro posto, ben potevano essere considerate un quid appartenente al genere delle bellezze naturali; sono state, però, divelte da un’impietosa ruspa e, quindi, trasportate nella piazza perché una volta compiuta siffatta operazione potessero essere considerate opera d’arte. Una materiale trasposizione capace (secondo le intenzione) di attuare l’inusitata verborum traiectio finalizzata a rendere equivalenti le espressioni verbali bellezza naturale e opera d’arte; capace, quindi (sempre secondo certe intenzioni), di attuare la concettuale identificazione della piacevolezza sensoriale con la piacevolezza intellettuale.

Ma è proprio la possibilità di attuare una siffatta trasformazione che mi sento di poter negare con forza. Vediamone il come e il perché.

Non credo, come non ho mai creduto, che il concetto di opera d’arte possa andare disgiunto da quello racchiuso nell’espressione verbale messaggio dell’artista: Inteso, quest’ultimo, come offerta di un’idea (scaturita, previa intuizione, dalla mente dell’artista) a un’indistinta generalità di possibili destinatari.

Non un’idea qualunque, dissi una volta in un altro saggio (e mi piace qui ripeterlo), ma un’idea improntata a un principio di valore (e, in questo, non mi distaccavo granché dall’enunciato di Charles Morris, il quale concepisce l’arte come “un luogo d’incontro dei valori”). Ma aggiunsi che la possibilità di ricezione di quell’idea risiedeva, principalmente, nel grado di piacevolezza intellettuale cui è improntata la forma del messaggio, qualunque sia il mezzo espressivo adoperato dall’artista. Continuavo, poi (nel saggio), con l’elaborazione di una teoria che prende le mosse, proprio, dal fatto della concretezza del recepimento del messaggio, da parte della generalità dei possibili destinatari. Qui però, per limitarmi a ciò che consente la continuazione del discorso nella sua specificità, ossia di quello inerente alla (da me) decisamente negata possibilità di barattare la piacevolezza sensoriale per piacevolezza intellettuale, è già sufficiente fermarsi alla insuperabile constatazione che la diversità semantica è simmetrica, connaturale a una innegabile differenza di rango ontologico tra i due catalogati concetti.

* * *

Non occorre, certo, imbarcarsi in dotte citazioni che tirino in ballo Gassendi o Descartes. Sanno tutti, infatti, qual è la differenza, (come si è accennato) di rango ontologico, tra senso e intelletto. Sicché non dovrebbe risultare difficile ad alcuno soffermarsi a considerare che una cosa è la piacevolezza sensoriale (ossia quella recepita in modo immediato per mezzo dell’attivazione di uno qualunque dei cinque sensi), altra cosa è la piacevolezza intellettuale, intesa come effetto dell’essenza del bello artistico, recepita appunto dall’intelletto in virtù di quella consonante intuizione che accomuna il mittente e il destinatario.

L’intuizione, appunto. Ancora una volta, l’intramontabile Benedetto Croce può aiutarci a capire. Ma un qualche esempio potrà servire, io credo, a rendere più accessibile il concetto che ho già avuto occasione di illustrare nell’ultimo dei citati saggi (e, scusandomi per l’autocitazione, chiarisco che ciò faccio solo per evitare la pesantezza dei chiarimenti che apparissero indispensabili); concetto che, qui, vorrei fosse chiaro al lettore.

La vista di un fiore, di un bel paesaggio o di quant’altro, suscita nell’osservatore non distratto una gradita piacevolezza; ed è come ovvio, una piacevolezza che non va oltre la sensorietà, perché è il senso che immediatamente la trasmette all’intelletto (nil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu).

Ma se dall’ipotesi della vista di un fiore (o di un paesaggio), passiamo al diverso caso della vista di un dipinto raffigurante il fiore, o il paesaggio, trasferiamo con ciò stesso in una diversa dimensione il piacevole recepimento di quella raffigurazione. Oggetto di recepimento (se quest’ultimo è facilitato dalla piacevolezza trasfusa dall’artista nella forma del proprio messaggio), in questo caso, è infatti l’idea balenata per intuizione (Croce) nell’intelletto dell’artista alla vista dell’oggetto poi raffigurato (ossia del fiore o del paesaggio nella loro realtà appartenente al mondo esterno). La quale idea può essere quella della bellezza qual è espressa dalla natura, così come potrebbe essere quella della raffigurazione di un quid che sia espressione del Disegno Intelligente, ovvero dell’Eterno, oppure dell’effimero. Tutto dipende, ovviamente, da quanto la capacità artistica dell’autore del dipinto è in grado di trasmettere.

Anche a questo punto non è, però, il caso di andare oltre le enunciazioni teoriche, parendomi sufficiente, quanto ho detto, a far intendere la sostanziale differenza tra la piacevolezza sensoriale, che appunto si prova (si può provare) nel contemplare un oggetto del mondo esterno, ossia un oggetto esistente in natura, e la piacevolezza intellettuale che si prova nel recepire l’idea trasfusa dall’artista nella propria opera (trasfusa in forma piacevole; ma di ciò non è il caso di dire di più, perché si entrerebbe nel campo dell’accertamento dei requisiti di artisticità della creazione, il quale esula dal tema prefissato). Un ultimo esempio, però, mi sia almeno concesso: quello attinente alla differenza tra la sensazione che si prova contemplando (e già questo mi riporta al tema) una roccia modellata dagli eventi naturali, e l’impegno intellettuale che si verifica contemplando lo sfondo del dipinto La Vergine delle rocce, nientemeno che di Leonardo.

L’immediata conclusione, sul punto, è che la roccia in sé, “al naturale”, non è e non può essere considerata un’opera d’arte.

* * *

Oggi, tuttavia, non è ancora del tutto tramontata (ma io spero lo sia a breve) la dottrina (facente capo, in qualche modo, alla teoria estetica che va sotto l’altisonante, ma forse inappropriato, nome di Ermeneutica) imperniata sull’enunciato che l’imitatio naturae può bellamente essere sostituita dalla diretta proposta della stessa natura. Forse, questo, è il massimo dell’eresia che può essere enunciata in campo estetico. Ma allora, forse, non appariva così, se Costantino Nivola ha a suo tempo dimostrato di non sottrarsi al fascino di quella non controllata novità, allorché per improntare la Piazza Sebastiano Satta all’idea di una rude natura (quella stessa che aveva affascinato il Poeta), propose non già una propria creazione artistica realizzata mediante elaborazione di quell’idea, bensì la collocazione di un autentico frammento di natura, ossia delle rocce di cui s’è detto. Così è stato; e, dopo tutto, non può neppure dirsi che l’effetto di decorazione non possa a taluno apparire piacevole. Ma si è pur sempre nel campo della decorazione (che, come qualmente, ha una propria specifica dignità, pur se soltanto nel discutibile campo della fuorviante multiculturalità), non già dell’arte.

Un’attenuante, forse, potrebbe essere concessa ai committenti dell’opera, se furono essi a richiedere a Nivola quella prestazione specifica; attenuante motivabile con riferimento al fatto storico che Paolo Portoghesi non aveva ancora pubblicato quel suo magnifico saggio intitolato Natura e Architettura, del 1999, nel quale sono elargiti magnifici esempi del come i grandi architetti hanno finora saputo utilizzare le forme naturali (e, specificamente, quelle caratterizzanti i grandi ammassi lapidei, ovvero le pur spettacolari stalagmiti, non divelti però dal luogo di origine) per alimentare l’ispirazione tendente a riprodurle in forma di pregevole creazione artistica. Il discorso di Portoghesi è, come rivelato dal titolo dell’opera, palesemente pertinente all’architettura; ma i concetti in esso espressi con cristallina lucidità ben possono, anche con un minimo di buona volontà, essere traslati al campo della scultura, specificamente di quella funzionale all’ornamento delle opere di architettura e di urbanistica.

* * *

Il fatto, poi, che ancor oggi non può considerarsi del tutto archiviata la dottrina che, credendo di poter ricavare fondamento logico dalla teoria estetica denominata Ermeneutica, impernia i propri assunti sull’enunciato che l’imitatio naturae possa essere impunemente sostituita dalla diretta esposizione di un frammento di materia “al naturale”, non induce di certo ad attardarsi nella confutazione del suo presunto fondamento. A ciò, infatti, ha già provveduto la storica esasperazione di essa, quella ad esempio posta in essere da Piero Manzoni (autore di un contenitore, un barattolo per l’esattezza, con un’etichetta recante la scritta “m. di autore”. Un’esasperazione che supera, in quella direzione, anche i noti pannelli di Alberto Burri raffiguranti (ma è solo la didascalia dei titoli a farcelo intendere) un degrado del quale va facendo giustizia una risorgente dignitas hominis capace di schiacciare certe importate ideologie.

Tornando al caso di Nivola, resta solo da ribadire che un manufatto urbano, nel caso concreto una piazza, può anche essere decorato da un frammento di materia “al naturale”, esemplificativamente un elemento integrante il paesaggio extraurbano (sempre che lo consenta, previa valutazione, il Ministero dell’Ambiente), divelto dal luogo di origine. Ma nessuno potrà con fondamento logico asserire che quel pezzo di natura, che è semplicemente tale, per tutti, finché rimane nel luogo di origine, possa essere da taluno considerato “opera d’arte” solo perché violentemente divelto e, quindi, impiantato in una ambientazione urbana. Sarebbe, invero, come ritenere che quell’ontologica trasformazione sia opera di un’inanimata ruspa 

Mario CORDA, nominato uditore giudiziario con D.M. 28 settembre 1955, ha svolto. funzioni di giudice del Tribunale di Nuoro, pretore di Bono e di Macomer.

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