Con
la costruzione della chiesa cattedrale inizia e si conclude a Nuoro la vicenda
architettonica ispirata allo stile neoclassico. Ma proprio quella vicenda segna
l’inizio di un’attività destinata a cambiare radicalmente il volto
dell’abitato, determinando il passaggio da “paese” a “città”.
In epoca più o meno coeva alla cattedrale sorgono tre costruzioni che segnano
appunto il risveglio da una stasi databile al Settecento. Quella che farà dire
a Salvatore Satta, nel primo capitolo de Il giorno del giudizio, che la Nuoro
d’inizio Ottocento era “un paese dove da cent’anni non si costruiva una
casa”.
La più importante, per dimensione, è il palazzo del Seminario, opera di
Giuseppe Cominotti, attivo prevalentemente a Sassari intorno alla prima metà
dell’Ottocento. È un’opera che, pur nella schematica linearità
costruttiva, si segnala per l’austerità, rotta soltanto da una decorazione in
rilevato d’intonaco che caratterizza il portone d’ingresso, al di là
dell’arco che congiunge i piani superiori dell’edificio con quelli
dell’antistante palazzo della curia vescovile.
Le altre due sono il Palazzo Asproni, nel suo nucleo originario prospiciente la
Via Asproni, e il Palazzo Bertino che si affaccia nella parte centrale del Corso
Garibaldi, di fronte alla Piazzetta Mazzini.
Due palazzi, questi, che segnano l’ingresso a Nuoro dello stile eclettico con
propensioni non ancora ben definite(1); entrambi, presumibilmente, progettati
dall’architetto Giacomo Galfrè, già progettista e realizzatore dell’altare
maggiore della cattedrale, con la collaborazione dell’ingegnere Antonio
Orunesu, bittese trapiantato a Nuoro, nipote peraltro di Giorgio Asproni, cioè
del committente della costruzione che prenderà appunto il suo nome.
I due (Galfrè e Orunesu) avevano lavorato insieme alla realizzazione della
cattedrale ed erano “rivali” solo perché antagonisticamente sponsorizzati
dalle opposte fazioni che avevano spaccato in due il Capitolo dei canonici.
Giacome Galfrè, nonno materno di Salvatore Satta, si era segnalato per avere
lavorato nell’Impresa Bertino che conduceva i lavori di pavimentazione del
Corso Garibaldi (2), nonché per l’edificazione della fonte Su Cantaru, a
Bitti, e di Istiritta, a Nuoro; in ogni caso professionalmente più valido di
quanto non appaia nel romanzo sattiano (fu peraltro sindaco, a Nuoro, nel 1857)
(3).
Il Palazzo Asproni è palesemente frutto di due successivi interventi
costruttivi.
Quello che ora interessa è il nucleo centrale originario, la cui facciata a me
pare attribuibile al Galfrè, se non altro per la presenza di elementi
decorativi ben attribuibili a un architetto che aveva potuto vedere a Torino,
una significativa opera di Filippo Juvara, e precisamente i palazzi contornanti
la Piazza San Carlo (realizzata dallo Juvara, appunto, nel 1731).
E, nella Nuoro di allora, l’unico architetto che avesse potuto maturare
quell’esperienza era, appunto, il piemontese Giacomo Galfrè, il quale aveva
compiuto gli studi a Torino. In quel contesto storico, peraltro, l’architetto
era solo autore dell’idea costruttiva, sicché per la realizzazione
dell’edificio veniva affiancato da un ingegnere, coordinatore del progetto e
dei lavori. Ed è ben comprensibile che quel ruolo fosse stato ricoperto dall’Orunesu,
sia perché i due già lavoravano insieme, sia perché (il secondo) era nipote
del committente.
Nel Palazzo Asproni a me pare di scorgere elementi decorativi che si rifanno al
composto barocco piemontese riscontrabile nella ricordata opera di Filippo
Juvara: l’incorniciatura ad arco (attuata con modanature in rilevato
d’intonaco) che illusoriamente amplia le aperture rettangolari, i contenuti
rosoni (sempre in rilevato d’intonaco) che piacevolmente spezzano la linearità
delle modanature verticali, la realizzazione di aperture cieche finalizzate alla
ricerca di una simmetria che l’utilizzazione interna dello spazio non aveva
saputo creare. Il successivo ampliamento dell’edificio rivela a sua volta la
mano del più fecondo degli architetti nuoresi, l’ingegnere Pietrino Nieddu.
Ma di ciò più avanti.
Attribuirei al Galfrè anche il Palazzo Bertino, ma col solo elemento di
riscontro che l’architetto già lavorava nell’Impresa Bertino e, a
quell’epoca, non aveva a Nuoro concorrenti. Palazzo che si segnala per lo
stile “veneziano”, unico a Nuoro, e per essersi conservato nelle forme
originarie, al pari dell’antistante Palazzo Nieddu, risalente al Settecento.
Stile che pare in certo senso ispirarsi a un non meglio definibile neogotico con
vaga tendenza al tardo barocco, reso comunque agile dalla semplicità dei
piccoli balconi in ferro battuto, reiterati ma non ingombranti, segnato al piano
terreno dalla insistita serie di grandi aperture d’ingresso, ornato nelle
volte dei vani terreni da cassettoni in stucco, ostentatori di uno status
consentito solo, a Nuoro, a opulenti titolari di una superiore continentalità;
a quei continentali cioè che, per dirla con Salvatore Satta, “trasformavano
le pietre in oro (4).
* * * Con i tre descritti palazzi non siamo, però, ancora alla svolta, quella
che determinerà il passaggio da “paese” a “città”. La vera svolta si
avrà poco più tardi, quando comincerà a operare l’ingegnere Pietrino Nieddu,
nuorese da generazioni ma formatosi a Roma, convinto ammiratore delle
monumentali opere degli eclettici Pio Piacentini, Luca Carimini, Gaetano Koch,
Giulio Podesti e Gustavo Giovannoni, i quali a loro volta avevano con profitto
saputo guardare alle opere di Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini. Ma
l’eclettismo degli architetti romani di fine Ottocento va qui chiarito, pur
sommariamente, prima di affrontare il tema della sua pur ridotta, proporzionale
trasmigrazione nuorese.
Se lo stile architettonico neoclassico rappresentò in certo senso una reazione
al barocco, così contrapponendo una razionalistica linearità all’eccesso di
volute e di elementi decorativi, lo stile eclettico (e in particolare quello che
a Roma sarà denominato l’eclettico monumentale, o “umbertino”) rappresentò
a sua volta una reazione al neoclassico perché si concretò nel fattuale
ripristino di quegli elementi sinuosamente ornamentali che la tradizione storica
aveva consegnato alla tecnica e all’arte.
Non si potevano, d’un colpo, cancellare i frutti di un’esperienza
ultrasecolare, spaziante dal romanico al gotico, dal rinascimentale al barocco
(fino al rococò); e tutto per inseguire una classicità che non poteva da sola
esaurire la gamma delle aspirazioni creative.
Erano, infatti, anche altri e molti i valori che andavano tenuti in conto,
allorché si volevano creare opere architettoniche degne di essere proiettate
nel futuro, ossia opere artisticamente pregevoli. Occorreva, insomma, saper
scegliere, nel calderone del passato, quel che di volta in volta, secondo le
esigenze obiettive e la cultura dell’architetto, poteva proficuamente essere
utilizzato.
Per questa ragione, il nuovo stile che scaturì dall’applicazione di tale
programma fu, in seguito e con molta pregnanza categoriale, denominato
“eclettico”, ovvero “eclettico monumentale”. Così, infatti, è oggi
specialisticamente denominata la relativa scuola, appunto perché votata a
cogliere da ogni passato stile architettonico quanto di valido veniva di volta
in volta ritenuto; nella convinzione, forse, che tutto quanto era stato
possibile creare era stato già creato, sicché la monumentalità (sconfessata
dalla scuola neoclassica) ben poteva ancora restare affidata all’oculata
scelta delle soluzioni che l’esprit de finesse suggeriva all’architetto.
Ma per quanto ampio fosse il calderone cui poter attingere, non vi fu un passivo
adagiarsi ai primi traguardi. Anche nell’ambito dei criteri di scelta,
infatti, ebbe a verificarsi un iter evolutivo, testimoniante l’ulteriorità di
un generalizzato gusto che, naturaliter, tendeva comunque al novum.
È possibile, così, distinguere almeno tre periodi, nel loro complesso
spazianti con sfumature dalla metà dell’Ottocento agli inizi del Novecento:
un primo eclettico che in parte si rifà ancora al neoclassico, accentuando
talvolta la prevalenza di questo su un reintrodotto barocco misuratamente
berniniano o borrominiano; un secondo stile eclettico che coniuga la
reintroduzione del barocco col nostalgico revival dello stile rinascimentale,
con la particolarità che nella reintroduzione del barocco guarda non più, o
non solo, a quello di scuola romana (ossia a quello prevalentemente berniniano o
borrominiano), ma si concede qualche leziosità che sembra ammiccare talvolta al
gotico, talaltra al barocco piemontese di marca juvariana, influenzato in parte
dal rococò d’oltralpe; un terzo stile, infine, che potremmo definire di
transizione verso il razionale, quello che mi parrebbe appropriato denominare di
Belle Epoque e che comincia, ancor prima del sopravveniente Liberty, a perdere i
pezzi di quanto appaia architettonicamente non finalizzato con rigore alla
sempre più valutata utilità.
* * *
Queste tre grandi linee stilistiche, contrassegnate da un’evoluzione non
sempre resa evidente nella concretezza di una miriade di esemplari, lasciano però
fuori, d’un colpo, altri notevoli aspetti di quella complessità che
caratterizza la scuola eclettica italiana. Così ad esempio, i pur riscontrabili
influssi di un non mai tramontato barocco siciliano, o di quello napoletano,
ovvero in un non mai abbastanza ammirato barocco leccese; ma v’è una ragione.
Qui, infatti, ho ritenuto di dover prendere in considerazione quei soli filoni
evolutivi dai quali è possibile, se proprio non si chiudono gli occhi, cogliere
pur labili tracce in quell’architettura nuorese che miracolosamente si stacca
dal generico, dominante anonimato che nulla concede all’esteriorità; pur esso
inquadrabile, tuttavia, in un capitolo che ha trovato appropriata definizione
classificatoria come “eclettico sardo (5).
Il periodo storico qui in esame, cioè quello che riguarda l’architettura
nuorese “di pretesa (6), coincide grosso modo con quello che ho prima
indicato, pur con lo spostamento temporale in avanti che contrassegna il
peculiare ritardo dovuto all’insularità.
Ed è singolare ch’esso inizialmente porti un unico nome, quello
dell’ingegnere Pietrino Nieddu (7), artefice di una qualificazione
architettonica che, pur con qualche malaugurata eccezione (8), ancora
sopravvive.
Dice di lui Salvatore Satta, ricordandolo col nome schermato di Don Gabriele
Mannu: “era stato a Roma, aveva studiato, ed era tornato ingegnere in un paese
dove da cent’anni non si costruiva una casa (9).
E poco più oltre: “egli aveva in mente i palazzi di Roma, le scale dove gli
antichi salivano a cavallo (10).
Il Nieddu certamente era rimasto affascinato dallo stile eclettico romano
(quello che, come ho già ricordato, prende il nome di “umbertino”),
tendente alla concezione “monumentale” anche nella progettazione delle
dimore private.
Il palese omaggio alla monumentalità che doveva qualificare la nuova Capitale
del Regno si esprimeva (appunto nelle dimore private) soprattutto con la
vistosità del portone d’ingresso, la cui altezza giunge talvolta a impegnare
il primo piano dell’edificio, e delle scale: elementi architettonici
finalizzati a impressionare il visitatore, e perciò simboli della grandiosità
del nuovo piano urbanistico della Capitale.
Tutte cose che, nella proporzionale trasposizione nuorese (ad opera, appunto,
del Nieddu), non piaceranno a Salvatore Satta, il quale considerava
evidentemente uno spreco di spazio quanto il progettista Nieddu, in attuazione
proprio di quella tematica, aveva concepito per l’edificazione della casa di
abitazione di Satta Carroni, la casa ove Salvatore Satta era nato (nel 1902) e
ove aveva vissuto la prima giovinezza (11).
L’opera più vistosa realizzata da Pietrino Nieddu fu certamente il Palazzo
Mereu, nel Corso Garibaldi; nato come abitazione privata, poi diventato sede
dell’Amministrazione comunale.
Occupava un’area molto vasta, che è poi quella occupata oggi dal moderno
edificio (di per sé pregevole) ove ha sede il Banco di Sardegna, tanto che
aveva un cortile interno quadrangolare, con molteplici accessi, a Nuoro unico
esemplare del suo genere. Cortile che fu adibito a mercato pubblico, ivi
trasferito dalla Piazza San Giovanni, dopo che questa, mutata per breve tempo la
denominazione in Piazza Cavallotti, divenne Piazza Littorio, perciò
fascisticamente inadatta al banale esercizio del minuto commercio (a Nuoro,
tuttavia, il mercato continuò per lungo tempio a essere denominato
“piazza”).
Forse quel cortile non era di per sé artisticamente pregevole; ma è certo che
attirò l’attenzione di Flio Vittoriani che, in Viaggio in Sardegna, del 1936,
lo descrive come una delle poche attrazioni nuoresi degne di essere menzionate
(12).
Sembra, comunque, inutile attardarsi ancora nella descrizione di un palazzo che
ormai esiste solo in qualche rara immagine fotografica. Se mai, può essere
utile ricordare di esso quanto occorre per ricavarne la tipologia degli elementi
decorativi tipici delle tematiche costruttive del Niedu, di modo che,
individuato quello che potrebbe apparire come un inconfondibile “marchio di
fabbrica”, si possa procedere a credibili attribuzioni, tenuto conto che il
Nieddu operò solo nel settore della committenza privata, sicché nonv’è
alcuna documentazione che possa facilitare quel compito.
In tale prospettiva, va subito notato che, a Nuoro, è attribuibile unicamente
al Nieddu, ratione temporis, la decorazione delle aperture (finestre) con
aggettanti cornici a edicola, di tipica origine rinascimentale, trasfuse poi
nell’impostazione barocca e trasmigrata nella cultura eclettica (soprattutto
romana) di fine Ottocento. Il Nieddu aveva potuto ammirare quella decorazione
sia nel Palazzo Farnese (massima opera “civile” del Rinascimento romano),
sia negli ottocenteschi, grandiosi palazzi di Gaetano Koch, in Piazza del-l’Esedra;
e, nella realizzazione del Palazzo Mereu, volle cimentarsi nella messa a frutto
di quell’esperienza. Ma nelle successive costruzioni, consapevole certamente
del fatto che la monumentalità romana non era sempre riproducibile nelle
ridotte dimensioni nuoresi, attenuerà la vistosità del genere decorativo, pur
tenendo ferma l’incorniciatura ad aggetto delle finestre, ma ripiegando su una
non meno vistosa mensola lineare.
Tipico esempio sarà il Palazzo Mastino che, come si vedrà in seguito, può a
buon titolo essere considerato la massima opera del Nieddu.
Altro elemento individuante (peraltro risalente, addirittura, all’architettura
classica, ma recepito incondizionatamente dall’architettura eclettica di
scuola romana “umbertina”) è la modanatura dentellata sottostante i
cornicioni di sommità, ma presente talvolta anche sotto le leggere cornici
segnapiano. Modanatura dentellata che, talvolta, è immediatamente sovrastata da
una membratura decorata da una serie di formelle ovali (ovoli), come ad esempio
nel palazzo d’angolo tra la Piazzetta San Carlo e la Via Chironi (13).
Sulla base di questi elementi di decorazione, attribuirei allora al Nieddu, come
opere di prima esperienza culturale (da inquadrare, appunto, nella prima fase
dell’eclettico nuorese), oltre al Palazzo Mereu e quello or ora menzionato, il
Palazzo Satta Carroni (la casa natale di Salvatore Satta), il Palazzo Muzio di
Via Cavour, il Palazzo d’angolo tra Via Chironi e Via della Pietà,
l’ampliamento, infine, del Palazzo Asproni (14).
Nel prosieguo di questa ricerca, sarà posta in luce un’evoluzione, nelle
esperienze culturali del Nieddu, che in certo senso ricalca l’evoluzione
dell’eclettico di scuola “umbertina”.
1) VICO MOSSA, Vicende dell’architettura
in Sardegna, Sassari, Delfino, 1994, pag. 50, dice del Palazzo Asproni che fu
costruito “con decorazioni neorinascimentali”. Salvatore Satta, ne Il giorno
del giudizio, Cap. XI, dice del Palazzo Bertino, con palese intento ironico, che
il proprietario “si era fatto la casa in stile veneziano”. Il proprietario,
Pietro Bertino, è ricordato nel romanzo col nome schermato di Paolo Bertolino.
2) Che Giacomo Galfré avesse lavorato alle dipendenze dell’Impresa Bertino ai
lavori di pavimentazione del Corso Garibaldi risulta da GIACOMINO ZIROTTU,
Nuoro. Dal villaggio neolitico alla città del 900, Nuoro, Solinas, 2003, pag.
122 s.
3) ELETTRIO CORDA, Storia di Nuoro, Milano, Rusconi, 1987, pag. 40. Salvatore
Satta, sempre ne Il giorno del giudizio (Cap. III) esprime un giudizio poco
lusinghiero nei confronti del nonno materno (“Si dice … che fosse un
architetto, ma chissà che cosa voleva dire architetto allora”); ma
ingiustificatamente, a mio avviso, se fosse corretta l’attribuzione a lui (che
io faccio) dei palazzi Asproni e Bertino. Satta non aveva grande simpatia per
gli edificatori dei palazzi nuoresi. Giudizio tutt’altro che lusinghiero,
infatti, egli esprime anche nei confronti dell’ingegnere Pietrino Nieddu (del
quale sarà detto più avanti); ma anche in questo caso senza valida
giustificazione, così come peraltro osservato da ELETTRIO CORDA, Atene Sarda,
Milano, Rusconi, 1992, pag. 34.
4) Il giorno del giudizio, Cap. II.
5) FEDERICA DINI, La Chiesa delle Grazie e le sue pitture murali, Nuoro, Solinas,
2001, pag. 31, parla di “eclettismo sardo del XVII secolo” con evidente
riferimento alle chiese per lo più campestri (tali erano, a Nuoro, quella,
originaria, della solitudine, quella della Madonna di Valverde, quella sul Monte
Ortobene), alla cui tipologia è conformata l’antica Chiesa delle Grazie,
nonché le chiese di San Salvatore, di San Carlo, di Santa Croce. Queste chiese
secentesche testimoniano che l’anonimato dell’architettura nuorese si è
trascinato dal Seicento all’Ottocento, cioè fino a quando, con il Neoclassico
e l’Eclettico, si è preannunciata l’architettura razionale del Novecento.
6) L’espressione è tratta da Il giorno del giudizio, Cap. II.
7) Va però ricordata (oltre quelle che ho ritenuto di attribuire al Galfrè e
all’orunesu) l’opera dell’architetto (credo piemontese) Enrico Marchesi,
ossia il carcere giudiziario di Via Roma, demolito inopinatamente nel 1975. Di
tale demolizione ho scritto, recriminando, ne L’Unione Sarda del 30 ottobre
1988. Lo scritto è stato, poi, trasfuso nel (sempre mio) Corso Garibaldi,
Nuoro, Il Maestrale, 1994, nel capitolo intitolato La sindrome demolitoria (pag.
51 s.).
8) Oltre quanto ricordato nella precedente nota, sulle scriteriate demolizioni
attuate dagli amministratori nuoresi degli anni Settanta dello scorso secolo, ho
scritto ne L’Unione Sarda del 12 febbraio 1989 un articolo intitolato Il culto
delle demolizioni, ove tra l’altro lamentavo l’avvenuta demolizione del
Palazzo Mereu che, se non la migliore, era certamente una delle opere più
significative di Pietrino Nieddu (l’articolo è stato, poi, inserito nel
ricordato Corso Garibaldi, pag. 61 s.).
9) Prima che venissero costruiti i ricordati palazzi di metà Ottocento, le
costruzioni più notevoli, a Nuoro, erano quelle abitazioni settecentesche delle
quali ho di recente parlato nel mio precedente scritto Il recupero
dell’anonimo ambientale e il ritrovamento dell’identità collettiva (in
Nuoro oggi, Luglio – Agosto 2003, pag. 32 s.).
10) Il giorno del giudizio, Cap. II.
11) Il giorno del giudizio, loc. cit.
12) Scrive Vittoriani: “È un cortile tutto bianco, questo mercato. Vi si
vende di tutto dalla carne alla lana da filare, e tutto in piedi, tutta la merce
addosso al venditore. Ma, poi, quasi ogni porta è un po’ bottega. Davanti
alle più povere c’è per lo meno un mucchietto di pomodori in esposizione
sopra una seggiola, che aspetta chi la compri – e non arriva a fare un chilo.
Ma davanti ad altro vedo ceste d’uva, panieri d’ulive da salare, persino il
banco d’un macellaio con mezzi montoni appesi alle finestre, ringhiosamente
sorvegliati di sotto il banco da un cane”. Vittoriani, quindi, menziona la
chiesa del Rosario (“con un mezzo tizzone d’albero accosto alla facciata
tutta nitida, e a un campaniletto di creta secca su per aria”), nonché la
cattedrale (“che troneggia isolata a ridosso di un brullo cocuzzolo; e su
m’avvio. Non proprio per la cattedrale che sembra nuova e d’un femminile
colorito rosa, come di batista; piuttosto proprio per il cocuzzolo”).
13) Palazzo che bene può essere attribuito al Nieddu, proprio per l’insolita
(a Nuoro) presenza di quegli elementi decorativi di cui è detto nel testo.
14) Nel Palazzo Asproni (il cui nucleo originario m’è parso appropriato
attribuire all’architetto Giacomo Galfrè), il quale già aveva facciata in
Via Asproni, il Nieddu ricavò una seconda facciata, sulla Via Manno,
senz’altro più austera della prima, ma non meno significativa.