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Grazia Deledda: percorsi osmotici tra letteratura e cineme
 
Non sono molti gli scrittori sardi che hanno lasciato una traccia concreta nella storia del cinema.
Ma se dovessimo chiederci chi di questi ha accompagnato l’evoluzione del linguaggio cinematografico un solo nome si imporrebbe all’attenzione: Grazia Deledda.
Non è impresa facile ripercorrere la storia, complessa e frammentaria, del rapporto che l’immaginario deleddiano ha costruito con il rapido e quasi incontrollabile sviluppo della narrazione cinematografica, caratterizzato da repentini riassestamenti tecnologici, estetici e comunicazionali.
A considerare quanto il cinema ha realizzato - nel secolo che si è appena chiuso - con il materiale narrativo fornito dalla scrittrice nuorese, si mostra con tutta evidenza che il rapporto tra espressione letteraria ed espressione cinematografica è stato caratterizzato da una forte problematicità.. Lungi dall’essere una storia conclusa, il critico cinematografico Gianni Olla ha ricostruito e raccolto in volume, con piglio analitico, una serie di percorsi che consentono di orientarci con lucidità dentro questa complessa (e spesso sfuggente) materia. “Scenari sardi.
Grazia Deledda tra cinema e televisione” - questo il titolo del volume, edito dall’Aipsa Edizioni di Cagliari - è in realtà un’opera collettiva, che raccoglie importanti contributi di Giovanna Cerina, Ferdinando Cordova e Alessandra Piras.
È una pluralità di voci che consente di viaggiare tra cinema, televisione e letteratura, terreni su cui l’immaginario deleddiano ha spaziato con esiti differenti. A guardare schematicamente e per date la filmografia e la videografia deleddiana si cade facilmente nella periodizzazione: alla fase del muto succede una fase sonora concentrata intorno agli anni Cinquanta; poi il grande momento degli sceneggiati televisivi e infine un approccio recente - e ancora aperto - legato al grande sforzo di recupero identitario cominciato negli anni Novanta.
Ma è solo uno schema, che riproduce frammenti di un disegno tutto da ricostruire. Il discorso del libro muove intorno alla cerniera che incastra cinema e letteratura davanti all’evoluzione temporale di un’immagine della Sardegna. La Cerina sostiene che nel tempo della letteratura si è definito un modello deleddiano, estrinseco alle tematizzazioni automatiche di chi si lascia prendere dal vortice della tradizione.
Eppure è difficile sottrarre a questa letteratura il segno della tradizione, di un movimento centripeto volto alla ricostruzione sentimentale e culturale di un’idea dell’isola. È un’immagine, quella che emerge dalle pagine deleddiane, che si sovrappone al corpo del mito (un’arcaicità enfatizzata è il fondamento del mitologismo sardo).
Eppure il sostare fisico della scrittrice - le coordinate geografiche del suo corpo, più che della sua mente, fuori della sua terra - aprono senza rimorsi il proprio mondo di ricordi come una ferita non rimarginata. Questa apertura consente l’ingresso di corpi estranei: parole, immagini, incontri, esperienze che vengono da un altrove che non è il suo punto di vista. In un certo senso la ferita mostra un modo di ribaltare il senso della lontananza in estrema vicinanza.
Questa prossimità “carnale” della scrittrice sviluppa gli strumenti ottici più che quelli psicologici.
La Deledda ricostruisce scenografie con una tale puntigliosità che l’elemento umano assume consistenza e presenza oggettiva piuttosto che espressione psichica. La Sardegna è ricostruita con l’impeto descrittivo e immediato dell’occhio fotografico, in una clinica delle posizioni, in uno schematismo dei rapporti di forza spaziali. Il tempo scava per rappresentare - nel senso di rendere presente - lo spazio come dono del destino. E qui si apre un’importante questione, che potrebbe essere origine di un altro percorso significativo: la sardità e la concezione dello spazio. Nel senso che il nodo dell’identità si apre a sconfinamenti metafisici, si incastona a fenomenologie iperreali; come iperreale appare il paesaggio disossato dalla storia che abbraccia il viaggio di uno sconosciuto in territorio sconosciuto.
A Emilio Treves la fanciulla Deledda - racconta Cerina - esprime l’ambizione di voler illustrare la Sardegna. Questo verbo rende significativamente giustizia allo sforzo letterario della Deledda e offre sponde interpretative che peraltro non possono essere scambiate ed equivocate con il banale didascalismo di un frequente (e frequentato) sottogenere letterario, ieri e oggi. Perlomeno ci suggerisce un percorso autorevole perché autorizzante.
È un riconsegnare l’immagine della Sardegna alla sua realtà. Ma il rendere lustro non è abbellimento, a meno che non si pensi a un bello naturale, disinteressato, che non sia schermo di (per) proiezioni ideologiche. Lo sforzo della Deledda più che realistico è naturalistico, perché il vero per lei coincide con il naturale, non con il reale: le sue indagini antropologiche, realizzate su indicazione del De Gubernatis, indagano il mito letterario orale come segno di un’origine che si svela da sé.. Il descrivere afferma un ruolo registratorio dell’occhio e dell’orecchio, colpiti dal costume, dalla tradizione, da quanto si è coagulato nelle forme della presenza. Questo è in fondo la cornice ridefinita dalla lente indagatrice (quasi fosse un avventuroso e metodico Sherlock Holmes) di Gianni Olla.
La curiosità intellettuale della Deledda non poteva restare indifferente alla potenza immaginifica del cinematografo, così lontano dalla parola come doveva essere il cinema nel periodo del muto.
La ricostruzione del contesto, anche attraverso il contributo di uno Scenario sardo per il cinema ritrovato da Ferdinando Cordova, consente di definire meglio in che modo l’immagine della Sardegna si (ri)costruiva nella dimensione estetica deleddiana, proprio per questo irriducibile alla sola vocazione letteraria. Ne è testimonianza anche la complessa vicenda legata alla realizzazione del film Cenere di Febo Mari, voluto nel 1916 da Eleonora Duse a propria misura ed ignorato dalla scrittrice sarda proprio per la sottrazione di dimensione antropologica a tutto beneficio dell’estroversione psicologistica della diva italiana.
La risposta dello scenario non trovò sbocchi cinematografici, ma è un documento ormai imprescindibile, perché si può documentare la presenza di un “cinema” interno al mondo letterario della Deledda (testimoniato anche dal film La grazia di De Benedetti nel 1929).
Ma la manifestazione più esplicita di quel “cinema” interno arriva negli anni Cinquanta con i film Le vie del peccato di Pastina del 1946, L’edera di Genina del 1950, Amore rosso di Vergano del 1952 e Proibito di Monicelli del 1954. L’onda lunga neorealista non guarda come dovrebbe ad un’isola altrimenti dimenticata.
Si impongono invece le rimasticazioni di un ovvio e facile deleddismo, manierismo autoreferenziale di un’autrice unica perché unica e referenziata (nobelizzata) fonte di immagini per chi - la maggior parte - fino agli anni Sessanta non conosceva nulla della Sardegna e soprattutto dell’entroterra. Monicelli aveva peraltro riconosciuto quell’unicità nei limiti storici dei romanzi deleddiani, ancorati ad una preistoria dei sentimenti.
Il rapporto tra cinema e letteratura è quindi concretamente così complesso che non è risolvibile nei termini di un confronto: Olla lo afferma e lo dimostra. Negli anni Venti la Deledda era considerata una necessaria chiave d’accesso al mondo sardo, ma con il passare del tempo quell’immaginario si restringe come un vestito intorno al corpo letterario. Questo è quanto dimostra l’opera deleddiana nell’epoca dei grandi sceneggiati tv: Canne al vento, Marianna Sirca, L’edera.
Ed è quanto avanza dalle opere più recenti ispirate alla sua opera: Il segreto dell’uomo solitario, Con amore, Fabia e (per la tv) Il cinghialetto. Con l’evoluzione del cinema si sono anche moltiplicati i punti di riferimento iconici, non solo quelli letterari. Perché il cinema oggi si riversa con forza anche dirompente nella dimensione letteraria tout court e non è più soltanto la letteratura a rifluire nel mondo delle immagini in movimento.
Altrimenti non si spiegherebbe perché tanti scrittori fanno letteratura pensando alla versione cinematografica.
NUMERO /5
Anno 2000, n. 5
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