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Un racconto della malaria
 
Sembra di parlare di un tempo lontano, tanto lontano, quando le strade erano selciato e polvere e i fantasmi forse esistevano davvero. Fantasmi buoni e fantasmi meno buoni. Circolavano allora, alla luce del giorno, l’uomo della fortuna e la mamma del sole, i ragazzi scalzi e i pazzi, i pellegrini e i mendicanti. Poche erano le automobili e anche il loro apparire aveva un’aura insieme di misterioso e di irraggiungibile. Quasi di intoccabile. La notte era riservata ad altri fantasmi, luminosi alcuni come la zucca svuotata e sagomata a testa di morto, con la candela accesa dentro. Più bui altri, invernali, come quando la neve smette di cadere e il ghiaccio ammucchiato ai bordi delle strade perde tutto dell’acqua per diventare color terra. Era il tempo della malaria. Cinquanta e passa anni fa, di malaria di moriva, in Sardegna e la gente si rassegnava a questo morire. Così voleva Dio e non c’era rimedio. Poi arrivarono gli americani e portarono il DDT. La memoria di chi era bambino, cinquanta anni fa, ha bene impresse quelle tre le lettere, DDT, scritte in nero sui muri delle case. La memoria della visione e la memoria olfattiva, dell’odore acre che si lasciavano dietro gli spargitori del DDT. Ma cos’era il DDT? Era un insetticida portato dagli americani, spruzzato e pompato sui muri delle case, ma anche nelle stalle, sulle strade, sui corsi d’acqua e sugli stagni dove si ammassavano e prolificavano le zanzare, sa zizzula oppure titula, zinzula, la causa della malaria. A spargere il DDT furono schiere di operai che si aggiravano per i paesi e le campagne con le taniche in spalla. Sembravano degli imbianchini. Sor de s’Erlas, venivano chiamati gli operai, un poco con disprezzo, quelli dell’ERLAAS (Ente regionale per la lotta antianofelica in Sardegna). Non avevano né divisa né tuta. Vestivano indumenti poveri: pantaloni, camicia e gianchetta pieni di pezze, in testa un berretto sformato, scarponi ai piedi. Tipiche figure di contadini e cafoni del Meridione, così come ce le possono consegnare ancora oggi alla memoria le fotografie di Franco Pinna, Uliano Lucas e altri. Questo era l’ambiente depresso della Sardegna del dopoguerra. Sor de S’Erlas combattevano la loro battaglia quotidiana contro un fantasma che aveva mietuto molte vittime, per secoli: sa malaghera, aria cattiva e pestilenziale. Sa malaghera contava sempre le sue vittime. Specie i bambini che morivano di febbre, con la pancia gonfia e la faccia gialla senza che nessuno ci potesse fare niente. Servivano, quei bambini morti diventati corpi quasi diafani, a fare la corona a sa Madonna de mesagustu, alla Madonna di mezzagosto. I bambini volavano in cielo e il pianto sommesso, quasi mai urlato, era ripartito tra molte case dello stesso vicinato e paese. In tempo di calura non passava giorno che qualche bambino morisse. Anche altri tenevano la conta. Erano gli apprendisti falegnami, anch’essi poco più che bambini, ragazzi di bottega a cui davano incarico di preparare le piccole bare: quattro assi inchiodate alla bell’e meglio e un coperchio. Non c’erano né tempo né risorse per tingerle di bianco. Bastavano le preghiere. In fondo quei poveri apprendisti delle botteghe altrettanto povere si consideravano dei salvati. Niente poteva sconfiggere sa malaghera se non il caso, la sorte. Una volta superate le febbri altissime e i deliri, sos babilleos, allora iniziava la guarigione. Ci furono intere famiglie che si salvarono. Il mostro entrò a casa loro. Tentò il devasto ma non riuscì a portare via nessuno. Gli scampati allora si guardavano in faccia, smarriti, il corpo ancora debilitato. Ma salvi. Pensavano al chinino avanzato in qualche ripostiglio. Il chinino erano grosse pastiglie di colore giallo intenso. Passato il male, quando passava, le pastiglie gialle di Italchina servivano a colorare coperte e altri tessuti. Una tintura che resisteva al sole e alle intemperie. Non si buttava via niente allora né, in luoghi di malaghera, si consideravano scaduti i medicinali. L’unica scadenza da combattere era la resa del corpo alle febbri e ai deliri. Buttati sopra casse di legno, dentro cucine scure, in stanze senza mobilio, in soffitte, sostres, aderenti a un cielo basso, in fondachi e sottani, unnacros impregnati di odori pestilenziali, corpi giovani combattevano la loro battaglia contro il mostro. Un combattimento fatto di arsura e vaneggiamenti, dove a un certo punto la ragione si perdeva per entrare nel regno dei fantasmi, una terra-cielo che ballava, riproponendo in continuazione agli occhi e ai sensi sagome inafferrabili di uomini e di cose. Al risveglio da quel viaggio in bocca restava un sapore di amaro che impiegava del tempo prima di andar via. Fino al prossimo attacco di febbre. Fuori, nella canicola, qualche medico condotto di buona volontà percorreva la desolazione delle strade e entrava nelle case per fare la puntura ai febbricitanti. C’era chi aveva paura della puntura: non per il dolore ma per le possibili conseguenze. Tra le adolescenti e le giovani prese dalla maleghera si era diffusa la voce che quando avevano il sangue, così chiamavano le mestruazioni, la puntura accelerasse la corsa verso la fine. La tale e la tal altra che stavano per guarire sono invece morte in seguito all’iniezione: così vecchie tradizionaliste terrorizzavano le ragazze. Non lo facevano per chi sa quale convenienza. Dicevano e agivano così per ignoranza, perché avevano da sempre conosciuto la ripetizione del tempo fermo, dove anche la malaria, le pance gonfie e i volti affavati, come colti da crisi di favismo, erano più costante che variabile. “Almeno diglielo al dottore che hai il sangue”. “No. Ho vergogna”. “Disgraziata. Allora sappi che muori”. Ci fu chi non disse niente al medico, fece la puntura e si salvò mentre sa malaghera continuava a entrare e uscire dalle case seguendo ancora una volta la sua logica affidata alla sorte. Accettare la cura, il poco che si aveva a disposizione contro il mostro, affidarsi alla scienza medica oltre che alle preghiere, fu comunque un atto, consapevole a volte, per contrastare la sorte per la sorte. Poi arrivarono quelli dell’Erlas. Se la loro venuta sia servita a sradicare completamente il male è cosa che fa parte di una verifica nostra contemporanea. Se sia riusciti cioè a superare indenni gli effetti del DDT irrorato senza risparmio.
NUMERO /3
Anno 2000, n. 3
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