Siamo stati tutti colpiti, nei giorni scorsi, dal dramma delle gemelline peruviane. Anche chi non ne può più del disinvolto cinismo di chi è pronto a trasformare in spettacolo ogni dramma e vorrebbe che si rispettasse qualche volta il dolore umano, non è riuscito a disinteressarsi della vicenda, e davvero, al di là di ogni giudizio di merito sul comportamento della stampa, della televisione e sull’eccessivo compiacimento mostrato dal chirurgo nell’essere al centro di tanto clamore, la vicenda ci ha, comunque, obbligato a pensare, e a ripensare, seriamente, una volta tanto, alle questioni fondamentali della vita, a cominciare dalla vita stessa. Può darsi che si sia esagerato col clamore, ma, a mio modo di vedere, non ci ha sicuramente nociuto interessarci di una vicenda davvero drammatica, essere obbligati a condividere o a condannare una scelta davvero seria, per una volta, tra dispute bizantine su destra e sinistra, spettacoli di varietà e fictions insopportabili.
Io confesso di non aver dormito, dopo aver seguito la trasmissione di Bruno Vespa la sera prima dell’intervento, accompagnata da una non pacata discussione in famiglia. Mia moglie sosteneva che la scelta di sacrificare una bambina per l’altra era moralmente giusta e che, comunque, lei l’avrebbe fatta sua, nelle stesse circostanze; nostra figlia era offesa e indignata all’idea che si potesse decidere di sopprimere, comunque, una bambina; e io ero infuriato coi medici, con la Chiesa, con Bruno Vespa e con quant’altri mai, forse anche un poco con me stesso, per la incoerenza delle posizioni espresse.
Dico subito che io rimango un uomo antico: non avrei tenuto in vita le bambine nemmeno per un giorno. Non le avrei fatte vedere alla madre e le avrei fatte morire il più rapidamente possibile. Come un pater familias romano, non le avrei alzate da terra, non bi las avio pesadas.
Non penso, ovviamente, che il padre abbia il diritto di stabilire se allevare o meno un figlio, come era per i Romani antichi. A mio modo di vedere, il padre ha il dovere e il diritto di contribuire ad allevare il figlio che la madre ha consapevolmente voluto. Questo è il punto. La madre ha il diritto di stabilire se fare o non fare un figlio. Una volta nato, il figlio ha i suoi diritti autonomi, non derivati, non dipendenti più da nessuno, padre o madre. Sopprimere un nato, nella nostra legislazione, è indubbiamente un omicidio, ed io condivido totalmente questo punto di vista. Ritengo che l’aborto sia una sciagura necessaria in una società che non ha ancora saputo insegnare ai suoi cittadini come non concepire figli non graditi, e sono per principio nettamente contrario all’eutanasia, intesa ovviamente come uccisione caritatevole, mentre penso che ognuno abbia il diritto di decidere di smettere di soffrire, anche morendo, ma che nessuno possa decidere per altri.
Ma ripartiamo dal passato.
Il controllo delle nascite è una necessità naturale per tutte le specie viventi. Una cagnetta, che avevamo a casa di mamma, nascose per abbandonarli due piccoli di una cucciolata e mamma, che se n’era accorta, glieli riportò, finché la cagnetta, stremata, morì. Che piaccia o no, la stessa cosa avviene a tutte le specie, anche all’umanità: la maternità deve essere voluta o, per lo meno, accettata, oppure diventa un dramma le cui conseguenze investono la madre e i figli che si pretende di salvare, imponendoglieli.
Quando il controllo delle nascite non era possibile con le pratiche anticoncezionali, anche se, pare, queste sono antichissime, per lo meno da quando l’umanità ha capito che il concepimento avveniva mediante l’amplesso, le donne ricorrevano all’infanticidio o all’abbandono, che aveva quasi sempre la stessa conseguenza. Nelle società patriarcali, i figli divennero proprietà del padrone di casa, del pater familias, e solo lui poteva stabilire se allevare o meno un figlio nato in casa sua. Tra i Romani il neonato veniva lasciato sul pavimento e si chiamava il dominus: se lo alzava dal pavimento indicava la sua volontà che il bambino fosse allevato, se lo lasciava sul pavimento ne decretava la soppressione o l’abbandono.
Secondo il mio modo di vedere, il significato del sardo pesare (che significa in senso stretto alzare, sollevare) nel senso di allevare, detto per bambini o per animali, potrebbe derivare da quel gesto del padrone di casa, anche se la stessa parola ha pure il significato di lievitare, gonfiare, per cui pesau significherebbe maturo, completo. In ogni caso, è evidente che per i Sardi (e, in genere, per tutti i popoli di diritto romano) il bambino, l’animale, la pianta, erano valori autonomi solo una volta pesaos. La morte del bambino rifiutato non era il dramma che è oggi per noi. Rappresentava un dramma la morte di un bambino “pesau”, voluto, amato, formato, già in grado di sorridere e godere. La soppressione di un bambino malformato, o che non si era in grado di allevare, era, semmai, una incombenza triste ma necessaria.
Le favole che narrano dell’abbandono sono così tante (la più evidente è quella di Pollicino e dei suoi fratelli, abbandonati dai genitori perché non ce la fanno a nutrirli; ma sono della stessa natura le storie dei lupi, legate all’abbandono dei neonati nei boschi, regno dei lupi), che non vale la pena di soffermarcisi più di tanto. Ciò che valeva per gli animali, valeva anche per gli uomini: non sempre si era in grado di allevare tutti i nati.
Le società più primitive uccidevano i bambini malformati, i bambini di troppo(È una barzelletta, ma è significativa la storia del pastore che torna in paese per vedere i gemelli nati al fratello ed esclama: “Essu bellos, su carra’! Eo los avio pesaos ambos!”, sottintendendo che di norma uno dei due si dovrebbe sopprimere), e i vecchi.
Per quanto riguarda i vecchi, io sono più propenso a credere che si trattasse generalmente di suicidio. Tra gli Eschimesi, gli Indiani d’America e presso molti popoli, i vecchi non più in grado di lavorare si lasciano semplicemente morire. Così credo che avvenisse anche in Sardegna. La prova dell’uccisione dei vecchi nella Sardegna antica gli studiosi la trovano, oltre che in fonti greche e latine, nel racconto, diffusissimo pressoché in tutti i paesi sardi, del figlio che trasporta in spalla il padre infermo (verso un ospizio, a volte, o verso “su strampu”, una sorte di rupe Tarpea, a Ierzu e altrove), si ferma a riposare, e, sentendosi dire dal padre che anche lui si è fermato nello stesso punto quando ha trasportato il proprio padre, ci ripensa e riporta il vecchio a casa. Sembrerebbe più una storia di abbandono che di omicidio. In ogni caso si tratterebbe dell’usanza di una Sardegna molto remota, mentre dell’infanticidio come pratica abituale si parla per la Sardegna medioevale. Confrontando i dati dei battesimi, sembra evidente che venisse soppresso un buon numero di neonate, come avveniva, e ancora forse avviene, in Cina.
È un fatto che, in condizioni estreme, l’umanità si libera dei soggetti più deboli. Bisogna quindi agire sulle condizioni della famiglia, e della madre in particolare, per eliminare il fenomeno. Limitarci alla condanna può servire a sentirci nobili, ma non a evitarlo.
Molte argomentazioni che ho sentito nei giorni scorsi ignoravano semplicemente la verità elementare che non è la società che alleva i bambini, ma i genitori, e spesso, molto spesso, la madre da sola. La madre che abbandona i figli è snaturata, la donna che abortisce è un’assassina. Se la madre delle gemelle peruviane avesse saputo, come era suo diritto, già nei primi mesi di gravidanza, che le sue bambine erano destinate a morire in brevissimo tempo o, comunque, a vivere una vita spaventosa e non sarebbero mai state per lei fonte di gioia, ma di angoscia, e avesse deciso di abortire, l’avrebbero condannata i consiglieri spirituali che tanto hanno pontificato sulla sua scelta d’amore, quando ha accettato di uccidere una bambina per tenerne in vita una rattoppata. Se avesse deciso, poi, di sopprimere le sue mostruose neonate, sarebbe stata condannata per infanticidio dai giudici e da tutta questa nostra pietosa società, come avviene tutti i giorni per tante madri che si liberano di un figlio indesiderato.
Non ritengo che gettare un neonato in un cassonetto sia un bel gesto, intendiamoci. È sicuramente un atto orribile. Compiuto da estranei, è anzi un misfatto atroce. Ma quando è la madre che lo compie, non è penalmente condannabile, a mio modo di vedere. Nel suo stesso reato è contenuta la sua pena, nella gran parte dei casi. La madre che si sbarazza di un neonato è una donna che, se avesse saputo o potuto, non sarebbe rimasta incinta (generalmente il figlio è il frutto di una relazione instabile, non consentita, quando non di uno stupro, più o meno violento, o un ennesimo errore, e, comunque, quel figlio non fa che aggravare una situazione già al limite della rottura della personalità materna) e, se avesse saputo o potuto, avrebbe legalmente abortito. Una donna che lasci morire il proprio figlio non va arrestata, ma assistita, perché il neonato, prima di diventare una persona distinta e autonoma, è ancora una parte di lei e lei sta, in qualche modo, decidendo di se stessa, non di altri, e nell’unica maniera che le è rimasta possibile, dilaniandosi in un atto che è, a ben vedere, un aborto illegale, perché compiuto oltre il limite previsto dalla legge.
Sotto molti aspetti, la posizione coerente è quella della Chiesa cattolica, che rifiuta l’aborto, ma non impone la maternità. La Chiesa sostiene che la maternità va portata comunque a termine e che la madre può rifiutare il bambino. Ovviamente non può sopprimerlo, ma può affidarlo. A questo scopo ha istituito miriadi di opere pie, sparse nel mondo. La vita è salva e alla donna non si accolla un compito impossibile. È, se vogliamo, la posizione più coerente e più ragionevole per chi ritiene che il bambino non è della madre, ma del mondo.
Peccato che la coerenza sia andata a farsi benedire nel caso delle bambine peruviane! La Chiesa, contraria all’aborto terapeutico, anche quando si tratta di salvare la vita della madre, si è detta d’accordo per un assassinio terapeutico, compiuto per amore. Tutt’e due dovevano morire, tanto valeva salvarne una! La Chiesa che ritiene un delitto usare parti di embrioni umani per trapianti ritiene lecito uccidere un nato per lo stesso scopo.
Il Comitato Etico dell’ospedale di Palermo ha ritenuto lecito uccidere un donatore non consenziente per prelevarne gli organi!
Ma erano entrambe condannate a morire, si dice, e si aggiunge mostruosità a mostruosità. In base allo stesso principio, perché non uccidere tutti i malati in coma irreversibile per prelevare cuore, fegato, reni, retine, spesso in ottime condizioni? Perché non usare come magazzino per pezzi di ricambio i malati terminali, che, spesso, chiedono di morire? Quanto materiale sprecato in tre quarti di umanità che muore di fame e di stenti!