Fino a non molto tempo fa la rappresentazione della Sardegna, della società sarda e quindi anche della donna sarda era, nell’immaginario collettivo esterno, fortemente intessuta ad una idea di mitico, di cosmico, di sogno, di tragedia greca, di mondo omerico. I colori, gli odori, i sentimenti provocati sembravano ancora risentire dei toni forti ed epici che richiamavano alla naturalità, alla primitività, a quella wilderness che tanto affascinava chi veniva da fuori e viveva per il resto del tempo nella cosiddetta “società civile”.
(“Civili” d’altronde erano definite dagli stessi sardi alcune persone, differenti per posizione socio-culturale, in contrapposizione con la maggioranza di poveri. A questo proposito ricordo con esattezza certe espressioni, che sentivo e che mi suonavano particolarmente estranee e spesso anche irritanti quando rientravo d’estate in Sardegna, pronunciate da mia nonna o dalle mie zie: “ civili “ infatti nei loro discorsi erano definite le persone che non vestivano in costume, che appartenevano, in una rigida gerarchia condivisa, a classi sociali più abbienti e che potevano usufruire di piccoli privilegi quali l’inginocchiatoio in chiesa o il saluto reverenziale per strada o essere chiamati “signori” etc…).
La rappresentazione della Sardegna dunque era consegnata da viaggiatori e visitatori che riferivano nei loro scritti e nei loro reportages di un mondo arcaico in cui le ritualità, i rapporti familiari, le feste religiose erano fortemente caratterizzati e assolutamente tipici: i modi, le persone, i comportamenti erano composti, ma rudi, ospitali, ma severi, corretti, ma scontrosi ecc... Tutto contribuiva a creare quell’immagine incorrotta che faceva favoleggiare dell’esistenza di un mondo omerico.
I nuraghi, le tombe dei giganti, le domus de janas, consegnavano un mondo immobile nei secoli nel quale storici ed antropologi trovavano luogo fertile di analisi per le loro ricerche nel tentativo di ricostruire un ideale percorso dell’umanità e di ritrovare la propria infanzia perduta.
Un dibattito molto interessante, vivace e ricco di stimoli si svolgeva tra etnologi, psicologi, storici delle religioni, antropologi culturali, intellettuali marxisti e non, sui fenomeni caratterizzanti la società sarda, ed in particolare quella barbaricina, quali il banditismo, la vendetta, l’omertà, il familismo, ma anche la durezza e l’inflessibilità del carattere. Fenomeni presenti non solo nei maschi, ma anche, con pari e spesso superiore vigore, nelle matriarche sarde. Questo ha consentito di sostenere, con diverse motivazioni ed analisi ora socio-economiche ora politiche ora storiche, l’ipotesi di un matriarcato in Sardegna.
Ma le donne continuavano a restare per la stragrande maggioranza analfabete, continuavano a comandare solo nell’ambito ristretto della casa, continuavano con gran fatica, trasportando pesanti fascine e brocche d’acqua, lavorando i campi, tessendo, filando, impastando, a provvedere al sostentamento giornaliero di tutti ed alla cura di bambini vecchi e malati, continuavano ad essere giuridicamente sotto tutela di padri, mariti e fratelli dai quali spesso subivano violenze e soprusi e continuavano insomma a sentire e sentirsi dire, per usare l’espressione citata da Salvatore Satta, che stavano “al mondo perché c’è posto” (il detto popolare non poteva d’altronde che rappresentare evidentemente la mentalità corrente). Credo che tutto questo fosse ancora così fino a pochi decenni fa. Quindi il cambiamento tanto repentino quanto rivoluzionario che ha sconvolto tutti i modi d’essere e messo in discussione l’idea stessa di sardità. Ma retorica e folklore a parte qual è la posizione della donna in una società che nell’arco di pochissimo tempo è passata da un tenore di vita essenziale al consumismo, da una economia di sussistenza ad una di mercato, dalle chiacchiere di vicinato alle chat-group via e-mail? La conquista di nuovi ruoli nel mondo della produzione e la ridefinizione quindi delle relazioni tra i sessi hanno portato diverse contraddizioni da una parte un aggravio di responsabilità e fatica (doppia presenza, lavoro di cura ed impossibilità a liberarsi della cultura di servizio), dall’altra il conflitto interiore tra modelli culturali tramandati ed esigenze, comportamenti e bisogni nuovi, tra accettazione delle regole familiari o sociali e legittima necessità di realizzazione di sé.
Nell’incontro tra le due culture, quella indigena e quella esogena, si sta faticosamente formando una nuova società che tenta di conciliare antichi valori fondati su un sistema di produzione agro-pastorale e nuove pressioni derivate dai mezzi di comunicazione di massa, penetrati ormai ovunque grazie a quei moderni strumenti tecnologici che mettono in relazione in tempo reale una donna del paese più lontano dell’interno della Sardegna con un’altra della più caotica e grande metropoli del mondo.
Orgogliose della loro sardità e fruitrici dei benefici della modernità, parte del mondo e centro del mondo, le donne sarde si affermano cercando un faticoso equilibrio tra uniformazione e tentativi di differenziazione, tra rivendicazione di specificità e peculiarità proprie e bisogno di stare dentro i tempi e le sue dinamiche talvolta anche terribili. Quanto poi tutto ciò costi ed in che misura lo si raggiunga è abbastanza evidente, se appena si osservi con attenzione il quotidiano lavoro femminile o si scorrano le statistiche occupazionali.
Oggi però mi pare che proprio le donne possano riuscire ad imporre nuovamente il diritto di cittadinanza alle idee di riconoscimento, ospitalità, rispetto e pari dignità dell’altro, allontanate con prepotenza dall’indifferenziato supermercato differenzialista che solo apparentemente tutto accoglie in una asettica registrazione che in realtà esclude e rende invisibili come frammenti del generale caos. Tra nostalgie e rimpianti degli antichi valori, paure delle contaminazioni, ricerche di vere o finte tradizioni, ricomposizioni di frammenti di storie e di identità perdute è di vitale importanza tentare di capire le peculiarità e ricomporre orgogliosamente il tessuto connettivo dell’esser sardi secondo una logica che però tenga conto del fatto che il mondo cambia senza di noi e ci esclude, se noi non riusciamo a cambiare lui e con lui.