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Una Sardegna autenticamente iperreale
 
I due cortometraggi con cui recentemente Salvatore Mereu (regista dorgalese, laureato al DAMS di Bologna e formatosi cinematograficamente a Roma alla Scuola nazionale di cinema) si è fatto conoscere al pubblico sardo, “Prima della fucilazione” e “Miguel”, fanno decisamente ben sperare per l’immediato futuro. Due film molto diversi in cui è possibile rintracciare il minimo comune denominatore dell’atmosfera iperreale, più orientata su vene surreali in “Miguel”, più controllata in senso scolastico nell’altro cortometraggio. Nonostante ciò questo primo esercizio di stile è sufficiente a farci avanzare forti aspettative. Meno vincolato dalla compitazione, “Miguel” ci racconta inoltre di una forte inclinazione narrativa dell’autore, che si rifà certo ai modelli cinematografici alti, ma che segna un salto qualitativo autoriale notevole, all’insegna di un’impronta creativa quasi anarchica, nel senso di libera o potenzialmente capace di liberarsi con grande facilità. La cifra stilistica che consente questa valutazione è offerta dalla capacità di maneggiare e plasmare una cultura (quella sarda) troppo incline alla tipicità e senza lasciarsi ingabbiare dagli stereotipi. Le facce dei pastori sardi, che tagliano le inquadrature di “Miguel”, concentrano nella fisiognomica quelle caratterizzazioni che altrimenti si raccoglierebbero nei luoghi comuni della solitudine pastorale, della loro atavica fierezza pietrosa fino a solidificare in codici di comportamento ai limiti della società civile. Con questo non si vuol dire che non esiste una dimensione esistenziale così caratterizzata, ma semplicemente che queste si consumano troppo spesso intorno ad un ostinato onanismo e narcisismo folcloristico. La dimensione onirica fa fluttuare il montaggio serrato e compulsivo che apre “Prima della fucilazione”. Il piccolo saggio racconta un fatto storico concentrando l’attenzione su un frammento obliquo rispetto alla vicenda complessiva che lo contestualizza. In tal modo il particolare si sottrae alla parzialità della lettura/scrittura per impegnarsi sulla tastiera dei valori alti. Dai diari di Salvatore Mannironi, penalista nuorese, Mereu ha estratto la porzione finale della vicenda di Antonio Pintore, che nel 1936 rapì la figlia del podestà di Bono e per questo fu condannato a morte e fucilato. Il cortometraggio salta il processo e taglia corto, ma non senza una ragione, sulla stessa fucilazione e la morte, liquidata nell’incipit frenetico come un presunto flash back - citazionista (come non ricordare “La notte di San Lorenzo” dei Taviani) - che innesca immediatamente la forma straniante del sogno. Preme di più all’autore raccontare il prima della fucilazione, appunto, il rapporto fatto di silenzi e sguardi (una luce oscura e asciutta carica di valenze sattiane i metri quadri di set nuorese) tra l’avvocato difensore e il condannato, ben interpretati d Ivano Marescotti e Fausto Siddi (quest’ultimo capace peraltro di dare un volto sovrastorico ai suoi personaggi, come già capitò nel Bakunin di Cabiddu). Quel rapporto umano rende inesplicabile e irreale la sentenza, in un’epoca in cui il fascismo nascondeva la realtà del banditismo sotto il tappeto e applicava la pedagogia dell’“esempio per tutti”, ne uccidi uno e ne educhi cento. Il film sembra sospendere il giudizio sulla realtà storica per dare spazio alla fenomenologia di rapporti umani disossati: questa sì la chiave di volta che cancella un’epoca fatta di ideologie mascheranti, che annichilivano la persona (maschera) dentro la sinfonia delle masse. Le dinamiche dei rapporti umani sono anche il tessuto di “Miguel”, con risultati assai diversi, poiché in questo caso abbiamo di fronte la rielaborazione di quella sana tradizione culturale che àncora lo sguardo antropologico al suo occhio filosofico. In “Miguel” il taglio onirico diventa più esplicito, non solo per la struttura surreale della storia - quasi omaggiante il verbo bunueliano -, ma anche perché il film “rischia” di assumere un valore metalinguistico rispetto all’immaginario cinematografico della Sardegna, che - ammesso che ci sia veramente - ha la forma grezza di una pietra ancora tutta da scolpire in profondità. Lo spagnolo Miguel, protagonista del film, attraversa la Barbagia, da “far west” senza tramonto, dei pastori riuscendo a vendere scarpe umane per vacche, pecore e capre, che indossate degli animali, quasi per magia, fa produrre loro più latte del normale. L’inganno non dura a lungo e all’illusione segue la delusione e la vendetta sul povero Miguel che finisce cucinato in pentola. Lo schematismo della storia tiene fuori i due elementi portanti del film e che ne garantiscon la riuscita: la capacità dei pastori di mostrarsi fuori dagli stereotipi e il finale in cui gli stessi prendono possesso del mezzo di comunicazione filmica, la cinepresa, e quindi prendono in mano la propria immagine. La favola di Mereu, come ogni favola, non sfugge alla moltiplicazione delle chiavi di lettura. La metafora cannibale per esempio è intimamente legata, concettualmente, alla sostituzione registica. Mereu si è lasciato prendere la mano, fortunatamente, da questi formidabili attori che presentando se stessi sono ri-usciti dalla loro maschera fossile con l’irriverenza tipica dell’autoironia. Il tono grottesco, deformante, serve ad accentuare linee di senso che non appartengono alla banalizzazione del messaggio. Mangiare Miguel non è segno di un rifiuto dell’alterità quanto semmai un prendersi carico direttamente, senza intermediari, della propria immagine e del proprio essere. “Miguel” si impone del resto proprio per la sua natura profondamente cinematografica, anche quando il cinema-cinema sconfina in echi kusturichiani, come allude la colonna sonora, che rinuncia alla riproposizione di un canto a tenore a favore di una musica significativamente nomade. I due film dimostrano tra l’altro che per fare cinema di qualità bisogna avere delle idee forti, non necessariamente nuove, ma capaci di mettere in gioco il coraggio del dire senza dover rendere conto a nessuno, tanto meno ai pontefici della tradizione, così dediti a saggiare i propri ossari. questo sul versante della produzione. Su quello della programmazione e della conoscenza, il grosso problema è quello di far vedere a tutti queste opere. I film hanno bisogno di circuitare perché solo in questo modo si possono realizzare quei cortocircuiti con le abitudini speculari della commiserazione, orgogliosa fino alla superbia, che accompagnano l’indolenza autoreferenziale dei sardi. I film di Mereu sono stati proposti nelle quattro province isolane (a Cagliari presso la Società Umanitaria Cineteca Sarda, nei Centri di Servizi Culturali di Carbonia, di Oristano e di Alghero, e a Nuoro presso il Consorzio per la Pubblica Lettura S. Satta) mettendo in moto una dinamica che ha individuato forti possibilità di decentramento in luoghi e situazioni socioculturali che hanno il merito di rilanciare una politica culturale di promozione, valorizzazione e comunicazione. Sottolineato il silenzio degli altri e delle istituzioni politiche, poco disponibili a valorizzare operazioni culturali che non restituiscano immagine ai politicanti di turno… se questo lavoro non lo fanno quelle strutture che meglio sanno interpretare l’orizzonte dell’apertura alla conoscenza, non si capisce veramente chi potrebbe farlo.
NUMERO /3
Anno 2000, n. 3
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