Aristotele definiva il Verosimile come il complesso di ciò che è possibile per l’opinione comune, in contrapposizione a quanto è invece possibile agli occhi delle persone colte. La tradizione post-aristotelica ha ripreso quest’idea arricchendola di un secondo tipo di Verosimile che non si differenzia molto dal primo e che non è del tutto estraneo in fondo al pensiero del filosofo greco: è cioè verosimile quel che si conforma alle leggi di un genere prestabilito. Così, il Verosimile è sin dall’inizio riduzione del possibile, rappresenta una restrizione culturale ed arbitraria tra i possibili reali. Nel suo testo fondamentale “Semiotica del cinema” Metz descrive il cinema come “un vasto genere, una ‘provincia culturale’ immensa (ma pur sempre provincia), con il suo elenco di contenuti specifici autorizzati, il suo catalogo di soggetti e di toni filmabili”. Per Noel Burch, altro studioso di grande importanza, la storia del cinema occidentale rappresenta la vittoria di uno stile da lui battezzato Modello di Rappresentazione Istituzionale, che favorisce l’illusione di realtà e l’immersione dello spettatore nella finzione. In questo senso, tutta una serie di regole sintattiche codificate nel tempo (raccordi di inquadrature, etc.) tese a rendere fluido e impercettibile il montaggio (che è invece frutto di una manipolazione del tempo), favoriscono l’immedesimazione dello spettatore nel personaggio e nella storia raccontata. In alternativa e opposizione, Burch enuncia un Modello di Rappresentazione Primitivo che non cerca l’illusione realistica, non vuole convincere lo spettatore che il palcoscenico non è il palcoscenico e l’attore rappresenta qualcos’altro.
Proprio il fatto che Hong Kong sia sospesa tra due mondi, quello orientale e quello occidentale, fa sì che il suo cinema non assomigli a niente e sia frutto della contraddizione e dello scontro dei due Modelli di Rappresentazione sopra enunciati. Nei film di arti marziali gli attori improvvisamente decollano e fanno balzi enormi (con l’utilizzo del “wire work”, la tecnica usata di recente anche per Matrix) così come in un poliziesco le sparatorie durano mezz’ora e tre uomini sono in grado di far fuori una banda di mezzo centinaio di delinquenti. Esagerazioni? Il punto nodale è costituito dal fatto che quella hongkonghese è un’industria dove il cinema d’autore convive con quello commerciale e la mescolanza e l’ibridazione dei generi all’ordine del giorno. La logica utilizzata non si basa su esclusioni reciproche ma, al contrario, su una sorta di inclusione accumulativa e proprio quest’esperienza è una delle più disorientanti per lo spettatore occidentale. Apprestandosi a guardare un film di Hong Kong bisogna dare per scontata un’imprevedibilità di meccanismi che sfugge alle comuni attese di genere: film come Loving You o Beyond Hypothermia, entrambi noir prodotti negli anni ’90, alternano momenti di crudeltà esasperata (nel secondo una killer dal cuore di ghiaccio ammazza una bambina testimone di un omicidio) a spunti melodrammatici che più lacrimevoli è difficile immaginare. Viceversa non è escluso che le commedie più sfrenate non presentino elementi di violenza inaudita all’interno del racconto. La prima impressione è quasi di caos e di esasperazione dei toni, ma a ben guardare “anche il cinema di HK ha un suo Modello di Rappresentazione Istituzionale. Lo spazio può essere sottoposto però a drastiche scorciature attraverso l’uso dell’ellissi e del montaggio ultraveloce, mentre la narrazione può passare in secondo piano, sacrificando la chiarezza all’effetto, il disegno complessivo all’emozione del momento” (da Tutto il cinema di Hong Kong, di Alberto Pezzotta). In questo senso è da considerare il flashback che in molte pellicole precede la conclusione, spesso sottolineato da canzoni struggenti, apice drammatico e trampolino per il finale: “lo spettatore viene costretto a una ricapitolazione nostalgica del film che sta vedendo; dall’altra è in gioco una poetica della labilità della memoria, per cui rivedere ciò che si è appena visto è necessario per non perderlo, prima di essere trascinati avanti nel tempo. È una paura della fine, della morte, della luce che al termine della proiezione invade la sala”. Senza parlare del fatto che nel cinema hongkonghese il protagonista è destinato alla morte con molta più frequenza che nel cinema americano, più occupato forse a salvaguardare il carisma e lo statuto superumano del divo. È tutt’altro che raro assistere a vicende che si concludono con finali raggelanti e senza speranza (a tanto meno redenzione): il già citato Beyond Hypotermia si conclude con i due amanti massacrati a revolverate all’interno della loro macchina, in una maniera simile al Bonnie & Clyde di Arthur Penn, e in Bullet in the Head, capolavoro di John Woo è lo stesso protagonista a uccidere tragicamente i due amici d’infanzia dopo una devastante esperienza in Vietnam (il film è una sorta di rivisitazione orientale del Cacciatore di Michael Cimino).
Se fino a qualche anno fa il cinema orientale era per molti quello ingenuo e ridicolo dei film d’arti marziali (che effettivamente ha costituito a lungo gran parte delle produzioni hongkonghesi nelle opere dei maestri King Hu e Zhang Che, i quali sono però tutt’altro che ingenui e ridicoli) è con l’approdo a Hollywood di registi di talento come John Woo, Kirk Wong e Ringo Lam e di attori come Jackie Chan, Jet Li e Chow Yun-Fat che il pubblico occidentale ha cominciato a prendere dimestichezza con modelli di film d’azione differenti dai “soliti” polpettoni con Bruce Willis e Mel Gibson. Non c’è dubbio che la libertà che caratterizzava le produzioni di questi autori nella loro patria sia stata ampiamente ridotta dagli schematismi previsti a Hollywood (Face/Off, ad esempio, prevedeva un finale molto meno riconciliato secondo le intenzioni del regista) e difficilmente film come quelli enunciati in precedenza troveranno posto nei cinema occidentali (tanto meno nelle videoteche – bisogna accontentarsi di versioni originali in cantonese con minuscoli e velocissimi sottotitoli in inglese!).
È con la cosiddetta “New Wave” degli anni ’80 che registi come Ann Hui e Patrick Tam reagiscono a un cinema, come quello del kung-fu, percepito come elementare e standardizzato, a favore di uno sperimentalismo più accentuato e un’ambientazione contemporanea. Le spade diventano armi da fuoco e film come Long Arm of the Law, City on Fire (il film omaggiato – ma si dovrebbe dire saccheggiato – da Tarantino per il suo Le iene-Cani da rapina) e A Better Tomorrow pongono solide basi per un cinema d’azione girato ad altissima velocità, dove le sparatorie divengono coreografie e nei quali la dilatazione dei momenti culminanti richiama registi occidentali che hanno saputo coniugare magistralmente i generi a una visione fortemente autoriale come Leone, Peckimpah e Scorzese.
È proprio il continuo attrito tra finzione e realismo, la complessità e l’imprevedibilità, a produrre i migliori risultati e a convincere molti spettatori occidentali a diventare cultori di questo cinema. Nell’ultimo decennio, culminato con il fatidico takeover del ’97 (Hong Kong torna alla Cina dopo essere stata a lungo colonia britannica) ha dominato il senso di spaesamento e di ricerca di una nuova identità (raccontato egregiamente da uno dei film più belli degli ultimi anni, The Longest Summer, quasi una radiografia dello stato d’animo successivo all’annessione) provocando una crisi produttiva dalla quale è emerso il talento di Johnny To, autore di opere coraggiose e popolate di morti come A Hero Never Dies e Expect the Unexpected ma anche produttore ancora più coraggioso di film in cui tematiche e modelli di rappresentazione vengono portati alle estreme conseguenze: “Questo sguardo parziale, irrequieto e mobile, si accompagna a storie che pongono l’enfasi sull’apertura, la provvisorietà e l’illegibilità. In Too Many Ways to Be Number One si giustappongono due destini alternativi, senza cavare alcuna morale, Police Confidential e To Be No. 1 presentano una costruzione a flashback con un inizio in medias res che getta in un totale disorientamento, in The Longest Night la classica unità di tempo e luogo (tutto si svolge in una notte, a Macao) evidenzia il fuori campo e tutto quanto sfugge per ricostruire l’intreccio linearmente. Gli occidentali sono rimasti a bearsi dei blocchi narrativi giustapposti a casaccio di Pulp Fiction e non si sono accorti di un cinema che, sia a livello di dispositio che di elocutio, sa essere all’altezza dei tempi”.
Sulla soglia del nuovo Millennio il cinema di Hong Kong risulta essere il più innovativo degli ultimi decenni e il più capace di leggere la frammentarietà e la complessità dei nostri tempi. L’augurio è che in qualche modo si estenda la fruibilità di opere indimenticabili e straordinarie come Bullet in the Head e A Hero Never Dies, che solo in pochi hanno potuto apprezzare, nonostante si tratti di film tra i più belli della storia del cinema.