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Chie si vantat issu - bonu issu
 
Cerco da giorni una frase sarda, un proverbio, un modo di dire, che mi consenta di affrontare il tema delle elezioni imminenti tenendo un certo distacco, senza l’imbarazzo dovuto al fatto di essere parte in causa. Il sardo ne possiede sicuramente decine, con tutta l’esperienza che ha accumulato in materia, ma, forse perché non riesco a distaccarmi, o forse perché di politica in genere penso in italiano, un poco come tutti, non mi riesce di trovarne, se non grevi, del tipo “su puliche ingrassau”, o “su carramerda isseddau”, “ghettau a mare e attu a Pische”, o più indulgenti come “chie no’ si cheret sonau no’ si acat campana”. Evidentemente anche io, come tutti i sardi, o come i sardi come me, non riesco a trovare sulla politica e sui politici che espressioni di spregio. Possibile? Allora, perché andare a votare, ci si può chiedere? e, a maggior ragione, perché proporsi come amministratore, o quello che diciamo per gli altri non vale per noi? A queste domande non ho difficoltà a rispondere: si deve andare a votare e ci si può proporre come candidati per le stesse ragioni per le quali si sarebbe portati a non andare a votare. Per non perdere il diritto di dire che il quadro generale è sconsolante, per non lasciare che rimangano in gara solo coloro che hanno devastato la coscienza pubblica, prima ancora che le finanze pubbliche, e non credono più in nulla. Per non essere mosche cocchiere. Per non ritrovarsi a ammettere di non aver fatto nulla per impedire lo sfascio. Correndo ovviamente il rischio di sentirsi dire da qualcuno, e di temere che tutti lo pensino, con un piccolo dubbio anche in se stessi, che siamo esattamente come gli altri, palloni gonfiati, vanitosi, supponenti, a caccia di un posto nel mondo. Il che può essere ovviamente vero. Se uno non è un poco vanitoso, un poco ambizioso, un poco matto, sempre che non sia disonesto e non vada a caccia di vantaggi economici, se ne guarda bene dal candidarsi alle elezioni, col rischio, sia pure remoto, vista la folla dei concorrenti, di essere eletto e di essere messo nel fascio di “chie manizat mele si nde linghet sos poddiches” da chi lo conosce poco e di essere accusato, comunque, di tutte le cose che l’amministrazione non riuscirà a fare. C’è, evidentemente, in chi si propone alle cariche pubbliche dell’ambizione e una certa stima di sé. A me pare, però, che della propria ambizione e della propria stima di se’ non ci sia davvero da vergognarsi e che, in politica, siano piuttosto virtù che difetti. Ci vuole ambizione per migliorarsi, e stima di sé per rifiutare baratti da piccoli bottegai a spese della collettività e della propria autostima. Io ho cercato di convincere tutti quelli che conosco onesti e capaci, e ne conosco tanti, a non tirarsi indietro. Perché la questione è sempre quella: non tirarsi indietro, non arrendersi alla delusione e alla stanchezza, continuare a credere che il futuro può e deve essere migliore e fare quel che si può per renderlo possibile. O si è complici. È più semplice farsi da parte, stare al balcone e guardare. In questi tempi, lo spettacolo, se si riesce a guardarlo con distacco, è certo, ricco, spassoso. Si può essere sicuri di vedere le maschere più divertenti, i personaggi più improbabili, le risse e gli abbracci più gustosi. Abbiamo già assistito, d’altronde, nella stessa presentazione delle liste, a capolavori di improvvisazione e di incapacità: chi ha partecipato a sedute per la formazione delle liste, in ciò che resta di grandi, gloriosi partiti, giura di aver assistito a drammi e farse degni della più gloriosa tradizione della commedia dell’arte. Ma stare a guardare è un divertimento che ci costerebbe troppo caro e non mi pare che abbiamo accumulato così tanto capitale da permetterci di sprecarne. Come diceva qualcuno, la guerra è una faccenda troppo seria per lasciarla fare ai militari. Così l’amministrazione della cosa pubblica è una faccenda davvero troppo seria per lasciare che se ne occupino coloro che hanno fatto della politica un mestiere, un’abilità da offrire al migliore offerente. Mi auguro che si voti in tanti e che si scelga bene. La scelta è forse troppo ricca, ma le urne sfoltiranno e non è detto che, qualunque sia il risultato, non vada bene. Il peggiore dei risultati sarebbe l’astensione massiccia, perché scoraggerebbe per sempre, o comunque per troppo tempo, i cittadini più seri dalle competizioni future e lascerebbe il campo agli specialisti. Non mi azzardo a dire più di tanto. Ho sempre presente che “Chie si vantat issu-bonu issu”, come si dice a casa mia…
NUMERO /2
Anno 2000, n. 2
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