Di recente conversando con giovani donne sulla condizione femminile mi sono resa conto di aver dato per scontati ed acquisiti i contenuti delle battaglie che le donne della mia generazione hanno combattuto negli anni ’60 e ’70. Ho scoperto invece che le generazioni successive alla mia, non solo non hanno memoria delle nostre dure lotte, ma ignorano addirittura che le condizioni di “parità”, di cui pure godono, sono frutto di quelle lotte. Magari non si stupiscono a sentir coniugare al femminile parole che il nostro vocabolario concepisce solo al maschile (ministra, avvocata, etc.), ma sgranano gli occhi quando si ricorda che le principali riforme degli anni ’70 quali la norma che sancisce la parità di diritti e doveri tra uomo e donna nel matrimonio, le leggi che disciplinano l’interruzione di gravidanza, il divorzio, l’istituzione dei consultori familiari, la tutela delle lavoratrici madri etc., sono il risultato delle battaglie portate avanti dai movimenti delle donne in un passato recente.
Le giovani donne si comportano come se la situazione attuale fosse immutabile.
Ma quel che è peggio: non hanno memoria di quelle che sono state per la mia generazione fondamentali scoperte e conquiste: la consapevolezza che tra uomo e donna vi sono notevoli differenze, che la differenza è ricchezza e non disvalore, che il personale è politico. A parlare di queste cose oggi sembra di parlare arabo.
Mi si potrebbe obiettare: ma che senso ha nel 2000 restare ancorati ad inutili discorsi sulla differenza tra i sessi quando la normativa nei paesi occidentali garantisce la parità ed ha praticamente annullato le differenze?
Sta proprio qui la fregatura. Si discute tanto sulle pari opportunità in un proliferare di commissioni ministeriali, regionali, provinciali etc., sicuramente utili nel tentativo di promuovere opportunità per le donne, ma purtroppo inefficaci ad abbattere il muro costituito dalla mancanza di memoria ed incapaci di diffondere e difendere la cultura della differenza. E la cultura della differenza è indispensabile per interpretare correttamente la situazione attuale e per impedire lo svuotamento dei diritti sociali conquistati con le dure lotte degli anni ’70.
Astrattamente ad entrambi i generi sono garantite condizioni di parità che però non comportano necessariamente pari opportunità; e di fatto le donne sono ancora oggi discriminate in quanto donne, sebbene la discriminazione non appaia più giustificata. Le statistiche e gli studi nei vari settori ci dicono che le donne concludono gli studi prima e con risultati nettamente superiori rispetto ai maschi, eppure incontrano maggiori difficoltà nell’accesso al lavoro, sono le prime ad essere licenziate, le opportunità di impiego che vengono loro offerte sono spesso precarie, senza alcuna garanzia. Non a caso dalle ricerche sulla povertà risulta che le donne nel mondo costituiscono la componente più consistente della popolazione povera.
Le donne, benché laureate in numero superiore ai maschi e con votazione decisamente superiore, sebbene presenti in numero sempre maggiore nelle professioni tipicamente maschili, hanno carriere bloccate ai gradi intermedi e raramente raggiungono ruoli in cui si esercita realmente il potere.
La loro marginalità è addirittura clamorosa nel mondo politico, basta pensare alla esiguità della presenza femminile in parlamento e in consiglio regionale. L’Italia peraltro è agli ultimi posti quanto a rappresentanza femminile nel parlamento europeo.
In conclusione la componente maggioritaria della popolazione e dell’elettorato (le donne sono il 52% circa) è oggettivamente discriminata e priva di potere reale.
La cultura dominante naturalmente sostiene che fra uomo e donna non c’è differenza ed è ovvio che nelle competizioni vincerà il migliore, pazienza se il vincitore risulta essere quasi sempre maschio, nonostante le statistiche dicano che non è il migliore.
Evidentemente la negazione della differenza tra generi è una fregatura per noi donne perché impedisce di capire quanto sia profonda la disparità reale in un contesto di parità formale, impedisce inoltre di capire e rivendicare l’importanza ed il valore positivo della differenza. L’essere, il pensare e l’agire da donne, rimarcando le differenze dagli uomini, non in un’ottica di separatezza, ma nell’intento di trasmettere e scambiare esperienze diverse e comunque valide, dovrebbe essere la conquista fondamentale del movimento delle donne e avrebbe dovuto segnare, pensavamo in modo determinante e definitivo, la cultura dei rapporti tra generi. Attualmente sembra invece che per accedere a mestieri e ruoli che finora sono stati appannaggio degli uomini, bisogna pensare come loro, dimenticando la propria natura e la propria cultura. Ma se si accetta di rinunciare alle proprie specificità, negando la differenza, il destino non può che essere la condizione di emarginazione.
Perché le giovani donne non hanno consapevolezza di un percorso che pure in un passato recente sembrava aver determinato un cambiamento culturale talmente profondo da essere definitivo? Perché, partendo da quel percorso, non sentono il bisogno di organizzarsi per battere e superare la discriminazione e preferiscono invece omologarsi al modello maschile?
Che peccato, enormi energie vitali rischiano di perdere la loro forza innovatrice nella rinuncia alla specificità culturale.
