Per le edizioni di Iniziative Culturali - associazione sassarese che ha dedicato tutta l’attività di quest’anno (nella quale si inscrive la pubblicazione del libro del quale si andrà a parlare) al ricordo di Antonio Pigliaru – è uscita da qualche mese la riedizione del saggio di Maria Giacobbe sulla personalità e l’opera di Grazia Deledda, con prefazioni di Luigi Lombardi Satriani e Paola Pittalis. A presentare il libro (la sua prima edizione era del ’74), nella nuova e accogliente Sala di Palazzo Sciuti (meno “fredda” e più adatta alla circostanza del salone consiliare), è intervenuto Nicola Tanda, professore ordinario in Letteratura e Filologia Sarda presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Sassari. Davanti a un folto pubblico e alla presenza della stessa autrice, Tanda ha da subito messo in rilievo l’importanza che la Deledda ha avuto all’interno del panorama letterario novecentesco. Tramite infatti la sua operazione artistica, la Sardegna entrò a far parte dell’immaginario europeo. Una realtà geografica e antropologica si trasformò grazie a lei, nella terra del mito, il luogo per eccellenza dove rappresentare le angosce dell’uomo contemporaneo di fronte al progresso scientifico. In questo contesto, spiega Tanda, assume un certo rilievo il ruolo di rappresentatività regionale della scrittrice nuorese, se si considera che la sua operazione letteraria diviene altresì una precisa operazione culturale, in un momento in cui molti artisti e intellettuali europei, con un taglio netto e radicale, auspicano la fuga dalla civiltà occidentale e la scoperta di una vita e di un’arte primitiva. Si iniziano infatti a ritrarre gli aspetti di una vita semplice e pura da cui si sprigiona un senso di mistico esotismo. Le armonie cromatiche raggiungono la loro più sontuosa ricchezza, e la forma, la più assoluta sinteticità. Come si vedrà, purezza e luminosità del colore e sintetismo della forma, sono due elementi formali fondamentali dell’estetica deleddiana e secessionista, così come in ambito tematico, è fondamentale il concetto di esotismo. Solo oggi, ricorda Tanda, da un punto di vista antropologico, diventa agevole comprendere quell’esotismo nella sua reale portata di rottura dell’orgoglio eurocentrico, e non solo di sogno e di evasione in un passaggio e in una cultura non dominati dalla macchina industriale. La difesa degli antichi saperi antropologici da cui nasce l’equilibrio dei sistemi sociali primitivi e il primo passo per il recupero di una vita emozionale pienamente espressa nei modi aggreganti e non disgreganti propri delle società rurali, e per la riconquista di quel “supplemento d’anima” che le logiche illuministiche del positivismo negano, in quel momento storico, all’uomo. Una crisi che giustifica la necessità che artisti ed intellettuali avvertono, di andare alla ricerca di nuovi spazi antropici incontaminati, dove l’uomo vive ancora secondo le regole di un ethos primitivo, in gruppi sociali permeati da quella “mistica religiosità” su cui riflette Bergson, e che Gauguin andò a cercare a Tahiti e Giacinto Satta, presumibilmente, in Africa. Del resto, anche nel percorso formativo di Giuseppe Biasi, altro grande amico e collaboratore della Deledda, l’esperienza del soggiorno africano (Algeri, Tripoli, Tunisi fra il 1924 e il 1927) fu fondamentale. Essa rappresenta il soddisfacimento di un’esigenza ingenerata nella sua mente di giovane artista, in parte anche dalle intuizioni estetiche della Deledda, e dalle forti analogie fra cultura sarda e nord-africana, che la scrittrice nuorese fu spesso in grado di rilevare, sia pure in forma di suggestivo esotismo, nei suoi testi. Nella stessa direzione opera da parte di molti artisti di quello scorcio di secolo, l’interesse per la scultura dell’Africa e dell’Oceania, basato sulla convinzione che nell’arte primitiva si realizzi la sintesi di percezione ed espressione perseguita dal pittore Fauve quando egli fa “esplodere” sulla tela i blu, i rossi, i gialli, cioè i colori puri senza nessuna mescolanza di toni. Anche le mostre d’arte orientale contribuiscono ad indirizzare la ricerca dei Fauves nel senso di una rigorosa semplificazione cromatica e della libertà nell’uso del colore. La Sardegna deleddiana dunque, rimanda alla rappresentazione di quell’unico universo che richiama alla memoria del lettore immagini di sogno e nostalgia insieme, immagini sorrette da versi pieni di colore e di profumo, vissuti e fortemente sentiti. L’Isola della Deledda diventa così l’Isola del mito, metafora di una condizione esistenziale, quella del primitivo, che proprio la cultura del Novecento aveva recuperato come unica risposta possibile al disagio esistenziale creato dalla società industriale. Una condizione culturale quindi, che spiega, sia per le novelle che per i romanzi, l’atteggiamento ambivalente e non di rado contraddittorio della stessa scrittrice. Infatti, se all’inizio della sua carriera artistica, appare nettamente la volontà di modificare la società nella quale era inserita, mano mano che si approfondiscono le sue conoscenze etno-antropologiche, si fa strada la convinzione del recupero di una identità e della difesa del valore della differenza. L’attualità della sua poetica era stata riconosciuta e compresa anche da Lawrence, che nell’introduzione del romanzo La madre, fa riferimento, non a caso, “alla massa primitiva” che compare nelle sue opere, e il segreto della sua narrativa sta appunto in questa visione della terra natale: un’Isola come luogo dell’immaginario, spazio in cui si consuma l’eterno dramma dell’esistere, tessuto antropologico, fonte di visioni mitiche di una terra senza tempo.
Ma su un altro versante Nicola Tanda ha detto cose importanti. Quello relativo alla critica e alle nuove metodologie di ricerca, certamente più adeguate nel lavoro di comprensione dell’opera deleddiana. Gli strumenti per studiare la fenomenologia letteraria si sono in questi decenni ulteriormente affinati, si sono aperti nuovi orizzonti e sono state riconosciute capacità cognitive alle percezioni, alle emozioni e alla memoria del soggetto. Queste considerazioni hanno con gli anni condotto ad uno studio diverso del sistema letterario, non più circoscrivibile nei vecchi termini della storia della letteratura in una sola lingua ma, semmai, in quelli nuovi di storia della comunicazione letteraria, di uno studio cioè della produzione ma anche della circolazione e della fruizione in uno spazio storicamente circoscritto e in situazioni complesse di plurilinguismo e di pluriculturalismo. Si parla perciò sempre più spesso dell’esigenza di ridefinire l’identità stessa della letteratura italiana e si è giunti alla conclusione che è più corretto accedere ad un modello storiografico che decide per una letteratura degli italiani. L’operazione desanctisiana dunque, che muoveva da un presupposto teorico unificante che non ammetteva le differenze e che tendeva a mortificare la ricchezza, la complessità e le diversità delle varie letterature regionali, oggi non è più proponibile. Si va affermando invece un orientamento critico che considera la storia vista dal basso, dalla “periferia”, come un tentativo di superare e modificare la tradizionale prospettiva centralistica. Anche in quest’ottica Tanda invita a rileggere l’opera deleddiana. Fuori cioè dalle concezioni idealistiche crociane e fuori dalla successiva sociologia letteraria marxista, la cui concezione estetica rimane, nella sostanza, quella crociana con l’aggiunta di rigidi schematismi sociologici e ideologici (“struttura” e “sovrastruttura”), quelli relativi alla teoria del “rispecchiamento” e del cosiddetto “realismo”. L’esigenza di sostituire ai sistemi chiusi delle filosofie universali, una fenomenologia aperta e non dogmatica, dal momento che “le poetiche […] hanno un loro significato entro un orizzonte prammatico” segna con le insorgenti più aggiornate acquisizioni metodologiche (critica fenomenologica, simbolica, filologica) uno dei passaggi importanti e dirimenti di superamento in Italia dell’inadeguata estetica di matrice crociana. Ma è soprattutto grazie agli apporti della nuova linguistica, della nuova antropologia culturale, della nuova estetica derivata dal dibattito con la semiotica, che si avvia fecondissimo quel processo di profondo rinnovamento di metodo, capace di influenzare in larga misura la ricerca successiva (formalismo, strutturalismo, semiologia) volta ad indagare l’universo letterario.