Forse sarà stato un caso che nel numero precedente molti tra noi abbiano sentito il bisogno di occuparsi di cinema, proprio in un momento in cui il cinema vero e proprio pareva essersi definitivamente dimenticato di Nuoro. Per un attimo ho anche pensato che, allo scoccare dell’anno 2000, il tempo fosse come impazzito e le lancette avessero preso a girare al contrario, per tornare indietro, indietro… Indietro? Qualcuno mi ha detto che un tempo a Nuoro non c’erano due cinema, ma addirittura tre! Chiedo conferma.
Avevo anche pensato a una piccola rubrica di aggiornamento cinematografico dall’avamposto milanese, dove le sale non mancano, tra le holdings berlusconiane e quelle di Cecchi Gori. Ma, a quanto pare non ce n’è più bisogno visto che l’allarme è rientrato e nella nostra piccola cittadina riprende il corso quotidiano degli eventi, sogni di celluloide compresi. L’unica considerazione positiva sull’accaduto può essere che almeno il Natale nuorese è passato senza che si dovesse per forza assistere all’ultima boiata dei Vanzina o di Pieraccioni…
A questo punto, quindi, non è più necessario che mi soffermi sull’attualità, ma di un film in particolare sento il bisogno di parlare, ed è American Beauty. Nonostante l’ondata pressoché unanime di consensi, non ho letto un’analisi del film che fosse stata in grado di coglierne il vero significato. Stupisce che il bravo Mereghetti l’abbia liquidato leggendolo ingenuamente come opera il cui messaggio non è che il risaputo “matrimonio come tomba dell’amore”, ma bisogna dire che nemmeno le numerose critiche positive hanno saputo andare un po’ più a fondo, per comprendere la vera cifra del film. Dire che American Beauty sia un film sulla famiglia e sul matrimonio sarebbe come dire che Easy Rider è un film sui motociclisti. La critica che il giovane regista e l’altrettanto giovane sceneggiatore esprimono non è diretta al nucleo familiare ma all’intera società, e in maniera più decisa del inutilmente ribellistico Fight Club. Vero centro nevralgico del film non è tanto Kevin Spacey, peraltro bravissimo, il quale non si oppone al mondo esterno ma piuttosto manda tutto all’aria, lavoro e matrimonio, correndo più in fretta incontro alla morte, magari godendosela solo un po’ di più, ma il ragazzo innamoratosi di sua figlia con quello sguardo attonito e privo di ipocrisie, capace di fronteggiare la realtà come nemmeno gli adulti riescono a fare. E’ lui il latore del messaggio che la bellezza è in ogni cosa se solo si impara a guardare. Allora trovarla in un funerale, in una ragazza grassoccia o semplicemente in una busta trascinata dal vento significa rivendicare il proprio diritto alla scelta e rifiutare le imposizioni esterne. Non perché “non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace”, ma perché ciò che piace è in gran parte qualcosa che ci viene fatto piacere.
Il messaggio finale è anche fin troppo buonista e questa è forse l’unica pecca (ma ammetto che questo giudizio ha più a che fare con le mie personali attese che con il valore artistico del film), ma spinge a riconsiderare il tempo perduto e quello che ogni giorno perdiamo nel caos e nel vortice dei nostri giorni indaffarati.
In secondo luogo, la considerazione che più mi preme fare, riguarda un altro fraintendimento generale, per cui film come questo e come, in tempi recenti, Kids o Doom Generation, incentrati su un supposto nulla generazionale, siano da leggere come documento attestante la mancanza di ideali e di sogni del mondo giovanile. Tutt’altro. Questa società non appartiene ai giovani. Sono i giovani ad appartenere ad essa e ad esserne schiavi, nell’illusione di dominarla. Questa società di baby gang che rubano orologi e scooter ai loro coetanei e di adolescenti che impegnano la paghetta per il nuovo gioco della playstation, non appartiene a loro. Questa è la società dei loro padri, la società che loro hanno voluto, la società contro cui a un certo punto hanno fatto finta di ribellarsi per poi rientrare ordinatamente e silenziosamente nelle fila. Bloch ha scritto: “i giovani sono più figli del loro tempo che dei propri padri”. Non ci si stupisca quindi se anche le menti migliori di questa generazione si perdono nella confusione di un tempo confezionato in dono dalle generazioni precedenti. Mi si perdoni l’arroganza di tutte queste affermazioni, ma ho letto troppi stupidi articoli sui “giovani” per non desiderarne uno scritto sugli “adulti”.
Tutto questo non significa che i giovani siano senza colpa, tutt’altro. Loro stessi saranno padri di figli uguali a loro, peggio di loro se la società in cui li faranno vivere sarà peggiore. Loro stessi oggi scelgono, scelgono di non scegliere, rinunciano, lasciano che sia, come i loro padri fanno finte rivoluzioni nei centri sociali.
American Beauty è un film sulle colpe dei padri. Dopotutto, come si può pensare che un adolescente scaraventato in un mondo come questo sia più colpevole di un adulto che non è nemmeno in grado di fare i conti con il proprio passato?