Qualche settimana fa, all’uscita del cinema “Le Grazie”, per fortuna restituito ai cittadini nuoresi dopo una lunga e penosa chiusura, scambiavo come d’uso con la mia amica Paola, consueta compagna dell’appuntamento del giovedì per il cineforum, alcune considerazioni sul film appena visto. Si trattava del recente “Buena vista social club” di Wim Wenders, documentario in cui il regista ha filmato gli ambienti di vita, le prove, gli spettacoli, i locali, le strade ed ha registrato le impressioni e i sentimenti di quel gruppo di musicisti cubani, i quali, reduci dal successo riscosso a New York (il loro disco “Buena vista social club”, da cui evidentemente il titolo del film, si era aggiudicato il Grammy nel 1996), si riuniscono nuovamente per l’occasione. Le considerazioni riguardavano le sensazioni da me provate, peraltro pienamente condivise dalla mia amica, quindi suppongo possano essere state provate anche da altri, di vuoto e di straniamento nei confronti del circostante, quasi si facesse fatica a restituirsi alla realtà dopo essere stati prestati al sogno per 104 minuti. Già perché proprio di sogno si trattava, nonostante le riprese fossero assolutamente realistiche e non indulgessero ad alcun infingimento: desolanti le strade dissestate, in rovina le facciate dei palazzi di cui si intravedeva l’antica bellezza, povertà ovunque, nelle case, negli angoli dei crocevia, nei visi segnati della gente. Persino i corpi, grassi, magri, scattanti, sfatti, lisci, rugosi, erano così veri nelle loro diversità, nel loro essere rispettosi dei ritmi biologici della vita, del tutto liberi dai restrittivi ed omologanti canoni di cura, bellezza e perfezione tanto ossessivi e frustranti nella nostra società. Di quale sogno io parli è quindi difficile da spiegare e giustificare. Forse è il sogno che risveglia fantasmi assopiti nel fondo ed evidentemente mai morti, i fantasmi di quell’idea di uguaglianza per cui tutti vivono nello stesso modo e si riconoscono vicendevolmente di pari dignità. Non so poi dire se il sogno risieda per sua stessa natura nei fantasmi del Che e della rivoluzione elaborati dall’immaginario e quindi sentiti come veri aleggiare nella vecchia città dell’Avana e neppure se i fantasmi evocati da “Buena vista social club” e restituiti con tanta struggente nostalgia quanto impudente verità da Wim Wenders resistano all’oblio ed alla morte definitiva per una nostra assoluta necessità di sogno o meritino un’altra possibilità di più onesta e corretta reincarnazione. Certo è che sembra incomprensibile come si possa provare un senso di vuoto e di mancanza vivendo nella comodità e nel benessere e come questo vuoto sembri possa essere colmato, anche se per brevissimo tempo, da un documentario che mostra luoghi di indiscutibile miseria. Può darsi che sia stato il vedere, pur nella povertà, la resistenza della vita, della voglia di cantare, suonare, amare di provare insomma quei sentimenti che oggi nella nostra società anestetizzata sono resi igienicamente asettici per paura di perdere anche solo qualche piccolo privilegio. Può darsi anche che siano state le musiche, i colori, l’allegria, la sensualità, la chiassosità, tutte caratteristiche lontane dal nostro modo di essere e contrastanti con la nostra sardità così taciturna e così poco propensa all’esternazione dei sentimenti. Può darsi però che queste sensazioni nascano in realtà dal fatto che, le persone “emotivamente di sinistra” (per usare una espressione di Norberto Bobbio) abbiano desiderio e nostalgia del diritto alla riconquista di piena cittadinanza politica e morale del concetto di “sinistra”. Può darsi davvero che tutto ciò sia solo sogno e utopia, ritengo ciononostante doveroso sottolineare quanto siano sentiti il bisogno di idealità che dà forza e senso all’esistere e la necessità di riflessione su concetti e valori di fondo senza le cui coordinate è inevitabile il disorientamento, la disaffezione ed il disimpegno. A maggior ragione ciò deve avvenire oggi, a breve distanza da un appuntamento elettorale così importante per i cittadini nuoresi che, per la prima volta, sono reduci dall’aver assistito al triste evento del proprio comune commissariato. Mancano infatti ormai poche settimane al rinnovo degli organismi amministrativi comunali e provinciali e, ancora una volta, il clima che mi pare di cogliere non è quello di corretta tensione politica e di proficuo dibattito sulle problematiche e i programmi, bensì di inutili chiacchiere sul totocandidati o al massimo, quand’anche ci si azzardi in occasionali spinte in avanti, di battibecchi approssimativi su questioni locali di interesse decisamente limitato. Quasi mai è dato di venir coinvolti e quindi partecipare ad un dibattito di interesse e di rilievo politico più generale con l’intento di analizzare tematiche di ampio respiro e inquadrarle in una visione più generale di quella strettamente paesana o provinciale. Eppure sempre più scaturiranno dalle nostre decisioni di appoggiare questa o quella candidatura, questo o quel programma, questa o quella idea scelte e conseguenze che interesseranno e coinvolgeranno la qualità della vita della comunità attuale e futura. Certo è che all’esterno, tra i comuni cittadini, gli echi della “politica” parlano di accordi, di trattative, di numeri contati su vastità di parentele o di voti portati al partito, di diritti a ricoprire cariche per compensazioni a mancate altre candidature. Non giungono echi di dibattiti sulla forza di idee e programmi, sui requisiti da richiedere agli eventuali candidati (sempre che la preparazione, l’onestà, l’esperienza siano ritenute caratteristiche indispensabili o non siano invece considerate fondamentali altre doti più appariscenti e più telegeniche) sulle azioni concrete infine per riconquistare la fiducia degli elettori messa a dura prova da questa ultima legislatura. È pur vero che a ridosso delle elezioni non è lecito chiedere di discutere sui massimi principi perché si sa che l’impegno è proteso alla soluzione dei problemi più contingenti e pressanti, ma farebbe piacere e sarebbe di conforto nel momento della scelta nell’urna sapere che, nello stilare i programmi, il confronto è avvenuto a monte sugli imprescindibili valori comuni di uguaglianza, legalità, responsabilità, equità sociale e pari opportunità. Questo naturalmente se si crede che il termine “sinistra” abbia ancora diritto ad un senso riconosciuto e riconoscibile, altrimenti, se il compito è quello di amministrare, e quindi legittimare, l’esistente con tutte le sue ingiustizie ed i suoi spesso indecenti privilegi, è improprio ed inaccettabile continuare a dirsi di sinistra. In conclusione, ritengo che se manca la dimensione del dibattito politico ed ideologico, anche di dimensione alta e a livello partecipato diffuso, nessun programma, nessun progetto, nessun candidato, per quanto buoni e prestigiosi, possono creare consenso forte.
Niente e nessuno possono mai sostituire la forza di coesione delle idee. Sempre più si tenderà a diventare refrattari ed indifferenti nei confronti dell’impegno dell’interesse e della partecipazione. Sempre più il consenso tenderà ad oscillare, ricostruirsi e dissolversi ora intorno ad un nucleo ora intorno ad un altro più promettente se i luoghi deputati alla elaborazione del pensiero politico non ritorneranno a ragionare in termini di idee e di principi e smetteranno di discutere di convenienze e di alleanze, dimostratesi tra l’altro assolutamente perdenti anche ad un mero conteggio numerico se proprio di principi sembri superato ed utopico parlare.