(Da "La seconda guerra mondiale" di W. Churchill)
Per cinquant' anni noi europei abbiamo creduto di aver esorcizzato la nostra storia, la storia di questo Novecento che ci prepariamo a salutare pensando, a torto, che i mali e le catastrofi di questo secolo siano in realtà parte di un passato lontano, che non può trovare spazio nel nuovo millennio.
La storia ha presentato i suoi conti secolari, ai quali l'Europa non può sottrarsi, mantenendo il suo atteggiamento distratto, in attesa forse che il grande fratello americano possa intervenire per risolvere la situazione. Le mani dei profughi kosovari, tese alla disperata ricerca di cibo e acqua, sono il segno del lutto e della disperazione che qualunque conflitto porta con sé. Perché la guerra, anche quando è fatta con bombe cosiddette intelligenti, con gli aerei invisibili, con missili teleguidati al computer, arreca sempre desolazione e morte, miseria e tragedia. Tutto sembra un gioco; la televisione ci offre un grande spettacolo, una grande finzione che viviamo come tale, anche per il fatto che pigiando un tasto del telecomando possiamo tranquillamente vederci una partita di calcio o uno stupido sceneggiato in alternativa.
Gli americani continuano a percepire la guerra, loro che sono l'emblema della globalizzazione e della modernità, in una maniera che è però tipicamente otto-novecentesca: una situazione limpida e chiara, nella quale è sempre presente il cattivo di turno, il pazzo criminale e sanguinario, l'obiettivo quasi cinematograficamente perfetto su cui scatenare le ansie, la noia, le frustrazioni di una società che non vuole pensare, ma ama semplificare.
L'Europa, quella che ambisce ad essere unita, l'Europa dei popoli di mazziniana memoria, ha assistito distratta e confusa, troppo preoccupata degli aspetti economico -finanziari del suo processo di unificazione, per capire che una federazione democratica di popoli, come vorrebbe essere, quando non si regge su principi comuni di cultura, solidarietà, partecipazione, rischia di trasformarsi in una sterile quanto inutile confederazione. Abbiamo letto di come la visione ottocentesca centrata sulla prerogative inviolabili degli Stati, sia stata accantonata per dare risalto ai diritti dei popoli; ma questo principio, che si chiama poi aulicamente "ingerenza umanitaria", viene applicato sempre e comunque, con la stessa tempestività per tutti i popoli? Le esperienze recenti della Sierra Leone o la drammatica situazione dei curdi non possono essere considerate delle semplici eccezioni.
Se i cattivi sono solo i serbi, se il diavolo risulta essere il solo Milosevic (che rimane comunque un efferato criminale), perché allora i membri dell'UCK possono continuare a sostenere che il loro progetto non sia solo quello si ottenere un Kosovo indipendente, ma anche quello di arrivare ad un grande stato etnico albanese che comprenda, per esempIo, una parte cospicua della Macedonia?
E perché ci ostiniamo a ritenere buoni amici dell' occidente personaggi come il presidente croato Tudjman, convinto antisemita, oppure Itzebegovic, presidente della Bosnia e fervente nazionalista islamico? La verità è che i Balcani non possono essere studiati prescindendo dalla loro storia millenaria, che cinquant' anni di socialismo reale avevano soltanto momentaneamente accantonato: questa è una regione in cui il cancro nazionalista è una metastasi diffusa dappertutto, un crogiolo plurinazionale che in questa sua plurinazionalità trova la sua unica identità possibile, in cui all'interno dei singoli gruppi dirigenti nazionali ci sono sordide lotte di potere. Giustamente rabbrividiamo di fronte ai massacri della pulizia etnica serba compiuti nel Kosovo, ma perché non vogliamo ricordarci dei massacri di migliaia di serbi uccisi dai croati in Krajina?
Perché noi occidentali continuiamo a confrontarci con l'est europeo usando come parametri di valutazione esclusivamente quelli derivanti dalla nostra storia, dimenticandoci per esempio che questi paesi non hanno conosciuto l'ideale classico e fondamentale dell'umanesimo, il concetto della centralità dell'individuo e delle sue prerogative, per cui per esempio nel campo artistico hanno manifestato sempre una forte tendenza alla disumanizzazione dell' anatomia (vedi il grande successo delle avanguardie nell' arte russa di questo novecento); o perché riteniamo che dei missili possano sradicare il forte connubio tra Stato e Chiesa ortodossa, costante della storia e del nazionalismo orientale, che si è manifestata in quel Pope serbo che guidava la catena umana sul ponte Pancevo a Belgrado, disposta ad immolarsi grazie al suo profondo spirito mistico-religioso?
La guerra dei Balcani non è stata causata dal denaro, ma dai sentimenti, le sensazioni, le tendenze, le emozioni che provengono dall'inconscio con irresistibile forza; concetti che portano gli uomini a sacrificare l'idea di rispetto e tolleranza per il prossimo in nome del primato del proprio gruppo etnico, della propria nazione. Bertolt Brecht ha scritto: "Sventurati i popoli che hanno bisogno di eroi". La difficile ricerca della via della pace, che per noi europei sarà ancora drammaticamente lunga, non sente la necessità di eroi; l'unica cosa che possiamo fare è di convincerci a rendere realmente operativa (e non solo sulla carta), l'organizzazione internazionale che ha tra i suoi scopi principali quello di garantire la pace nel mondo: l'ONU.
Ma forse ha ragione il vecchio Leo Valiani, quando dice che "non può esservi riconciliazione dopo stragi ed esodi bi- blici, dove non conta la politica, ma solo l'odio del vicino".