(Fiddler Jones, da "Antologia di Spoon River" )
Toto Cutugno che canta "La canzone di Marinella" da una delle tante piazzette di polistirolo della televisione italiana. Così ho saputo, nella tarda mattinata dell' 11 gennaio, della morte di Fabrizio De Andrè, suonatore e narratore di storie, o meglio, agricoltore genovese, padre, concubino e circense, come si era definito nella presentazione del libro, scritto con Alessandro Gennari, "Un destino ridicolo" (Einaudi,1996).
lo, De Andrè, l'ho sentito per la prima volta da bambina, a casa di mia nonna; con mia madre e mio fratello ascoltava- mo "L'indiano" dallo stereo di mio zio, che aveva il disco: Fiume Sand Creek, Coda di lupo, l'Ave Maria in sardo. Per questo non mi sono stupita affatto quando ho visto un'intera classe delle elementari ai suoi funerali. Non c'è età per capire la poesia, per restarne folgorati. Non avevo ancora otto anni, eppure capivo benissimo l'atrocità dello sterminio di una tribù di Cheyenne, avvenuta più di cent' anni prima in una nazione lontana.
Sarà anche per quelle canzoni che ho cominciato anch'io a parteggiare "per chi viaggia sempre in direzione ostinata e contraria" (da Smisurata preghiera, Anime salve,1996).
La sottile linea che segna il confine tra giusto e sbagliato, tra gli onesti, i probi e gli altri: ladri, prostitute, travestiti, suicidi, illusi. C'è questo nelle canzoni di De Andrè: non si trovano grandi proclami, giudizi senza appello. Non regalano certezze le sue storie, ma sono intrise di tolleranza e di rispetto, che vengono fuori dai personaggi che racconta, gente invisibile, oggi, nella grande società globale: i diversi ma anche gli uomini comuni schiacciati dall'ipocrisia di una società che muta solo per rimanere uguale a se stessa, da una maggioranza che "coltiva tranquilla l'orribile varietà delle sue superbie". Facce che incrociamo di sfuggita tutti i giorni, ma che, a saperle guardare come sanno fare i poeti, raccontano anche la nostra, di storia.
L'introduzione di "Uomini e donne di Fabrizio De Andrè" di Alfredo Franchini (Demos Editore,1997), comincia, non casualmente, con una citazione dell' “Attimo Fuggente" di Peter Weir (1989), film culto per la mia generazione: "E ora miei adorati, imparerete di nuovo a pensare con la vostra testa Qualunque cosa si dica in giro parole e idee possono cambiare il mondo... Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino... siamo membri della razza umana e la razza umana è piena di passioni... La poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore,... sono queste le cose che ti tengono in vita".
Sarà forse, molto più semplicemente, questa necessità della poesia che fa amare ad un diciottenne "Amore che vieni, amore che vai", "Le passanti", "Sally" e la dolcezza delle melodie mediterranee di Creuza de ma, scritto in genovese nel 1984, quando cantare in dialetto senza scadere nel folklore era un' eresia. Senza questa coraggiosa scelta artistica gruppi come i Mau Mau, gli Almamegretta, gli Ustmamo (il meglio della nuova produzione musicale italiana), non avrebbero potuto portare avanti i loro progetti di ricerca nei rispettivi idiomi, e forse avremo dovuto aspettare di più per uscire dal buio della produzione musicale italiana degli anni ottanta.
"Noi siamo un po' più soli, il potere un po' più tranquillo", ha scritto qualcuno su Internet. Quel potere sbeffeggiato, messo alla berlina, improvvisamente non più così intoccabile, cantato nella prima parte delle "Nuvole". L'idea che i ricchi e i potenti si siano sempre arrogati il diritto di fare le leggi, mentre agli altri sia rimasta solo la forza per adeguarvisi ("...10 sanno a memoria il diritto di vino ma scordano sempre il perdono").
Ecco cosa aveva da dire Fabrizio De Andrè a chi non era ancora nato quando uscivano "Volume VIII" e "Storie di un impiegato", a quelli che non hanno fatto il '68, che non hanno conosciuto "i poeti molto acrobati della rivoluzione", che hanno sfiorato l'edonismo degli anni ‘80. La solitudine cantata in "Anime salve", quella si, forse, la conosciamo meglio.
Amore, rabbia, indignazione sono sentimenti che proviamo tutti, ma ci sono persone che, raccontandoli,sanno renderli più veri: sono i poeti, gli scrittori, i grandi cantastorie.
N on insegnano niente che non sia già dentro di noi, ma uno legge le loro opere e pensa: com'è diverso detto così, com'è più bello.
Com'è più pungente l'ironia quando la canta De Andrè in "Don Rafaè", com'è meno banale l'amore in "Via del Cam- po", com'è più umano Dio, nella Buona Novella. Ed è per questo che non sono solo canzoni, e che chi ha amato l'opera di questo grande artista è un po' più solo, con un compagno di viaggio in meno.
"Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna gli aiuti." (da Smisurata preghiera, Anime Salve, 1996).