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Viaggio nel cuore della Barbagia
 
Da più parti, negli studi di antropologia criminale, si avverte la necessità di un approccio interdisciplinare sui fattori del delitto.
L'indirizzo multifattoriale della moderna criminologia esprime l'esigenza di una sistemazione teorica dei fattori causali che determinano il delitto (da Kaiser a Mantovani fino a Mastronardi).
Nella letteratura sarda questa linea di metodo - recepita, per altro, dalla Commissione speciale d'indagine del Consiglio Regionale - era presente come nucleo centrale nel pensiero di Antonio Pigliaru.
In una prospettiva multifattoriale si muove, nel suo impianto epistemologico, il funzionalismo (da Durckheim a Merton fino a Parson), la teoria dei contenitori (Reckless), quella "non direzionale" (coniugi Glueck), le "associazioni differenziali" (da Shaw a Lander) e i teorici della sottocultura (da Ferracuti a Wolfgang fino a Cloward ed Ohlin).
In tutti, ormai, si sottolinea l'esigenza inderogabile di spiegare il delitto, sia sotto il profilo sincronico che diacronico, individuando il "ruolo" quantitativo dei fattori criminogeni (classificandoli secondo il loro grado di correlazione) e qualitativo (dividendoli in primari e secondari, "predisponenti" o "precipitanti"9.
Nell'analisi eziologica delle variabili i fattori criminogeni da cui scaturisce l’azione delittuosa si scompongono in due grandi categorie: endogeni ed esogeni, contenitori interni ed esterni, soggettivi (neuropsicologici, biogenetici, psicanalitici, etc.) ed oggettivi (familiari, sociali, economici, culturali, politici, etc.). Gli studi sulla criminalità barbaricina, sotto il profilo multifattoriale, sono rimasti allo stato delle grandi intuizioni (Pigliaru, Pira), mere enunciazioni metodologiche ancora da verificare col rigore delle scienze umane.
Entro questi limiti e con queste cautele di metodo un osservatore sociale può prospettare ipotesi di ricerca. La moderna criminologia tende a spiegare il delitto con metodo interdisciplinare nell'unità del sistema sociale e/o culturale che lo produce.
E’ la regola metodologica di fondo: ogni sistema culturale produce i suoi delitti, una morfologia tipica; l’evolversi del sistema comporta un'evoluzione morfologica del delitto.
II primo dato di fondo del fenomeno: in alcune aree - antropologiche e normative - delle comunità pastorali dell'interno, il delitto barbaricino tende a conservare la propria identità morfologica.
Chi tenta di omologarne il fenomeno con la criminalità comune, per un verso, non conosce le comunità pastorali dell'interno, per altro verso, non opera nel settore del diritto penale o dell'antropologia criminale. IL DELITTO BARBARICINO TRA CULTURA "ORIGINARIA" E/0 SUBALTERNA.
Esso è il prodotto tipico di un sistema comunitario, sempre più subalterno (=residuale) rispetto alla cultura egemone, e sempre più anomico rispetto alla cultura originaria. II crimine nella "zona delinquente" nasce da un sistema di disvalori vigenti nell'ambito comunitario, e, in quanto tale, è il prodotto di una subcultura.
II concetto di sottocultura nell’accezione sociologica (Gallino) indica un "sotto insieme" di elementi culturali, sia immateriali che materiali, elaborati e/o utilizzati da alcune comunità (o gruppi sociali).
Tale sotto-insieme di elementi culturali caratterizza l’ideologia del codice comunitario che, in Barbagia, convive in un rapporto di devianza e/o di conflittualità rispetto alla cultura dominante.
II barbaricino, quando precipita nel delitto, è un uomo "diviso" da sistemi normativi confliggenti, egli partecipa contemporaneamente a più gruppi sociali e alle rispettive culture.
II suo contegno è - per impiegare la terminologia funzionalista (Merton) - "conforme" rispetto al codice originario, "deviante" rispetto al codice "altro". Egli vive la duplice dimensione di uomo dentro un contegno ambiguo.
La sottocultura barbaricina è un complesso non meno stabile della cultura egemone con la quale si scontra in un rapporto di forza, ed ha un valore di cogenza preminente e perentorio.
I morti sono lì: bisogna andare nei cimiteri per farne la conta.
II dato sincronico e diacronico della vendetta, che misura lo spessore di una teoria, si trova dentro due "contenitori esterni": in galera e in cimitero.
Nei cimiteri le croci di questa guerra tra le famiglie-Stato. A Orune come a Bitti, a Oniferi come a Benetutti, a Fonni, a Mamoiada come a Desulo: una storia scritta col piombo nella geo-etica della Sardegna profonda.
Per chi sa leggere con gli strumenti del vecchio codice ce n’è d'avanzo. Tutte le vittime dell’odio sepolte sotto terra: poche parole in una lastra di marmo per sancirne la sentenza di morte.
Né il destino dei giustizieri, alla resa dei conti, sembra migliore: molti li trovi sepolti accanto alle vittime, trucidati in una lotta senza scampo, altri, o sono finiti in galera, o sono scappati senza prospettive di ritorno. In galera i dati della cultura ufficiale, parziali e spesso distorti; in cimitero i dati della sub-cultura reale (o del vecchio codice).
Per supplire all'inefficienza dello Stato che lascia semi vuote le galere, o impuniti i giustizieri, interviene il codice della vendetta che, nei paesi dell'interno, riempie i cimiteri.
E’ il regime di autotutela in un mondo regolato dalla forza, e dalla paura.
La forza e la paura, due disvalori naturalistici, sui quali spesso si regge la struttura dell'azione del barbaricino, quando entra nell’universo del delitto.
II crimine per lui ha una valenza simbolica, implica un giudizio di valore sociale dentro comunità ancora rigidamente ritualistiche. E in barbagia la forma conta ancora più di quanto non si pensi.
Resistere ("fronte parare") per non soccombere: costi quello che costi.
In quanto cultura resistente - quella barbaricina - è cultura originaria: le manifestazioni della vita sono, dentro questa prospettiva, una prova di forza. E di valore.
Saper resistere al dolore ("sa morte no s’immentricat mai"), onorare le vittime (con una ritualità foriera di altre morti: le mani battute sulla bara di legno), perseguire sempre e dovunque il nemico per trucidarlo, dentro la bettola o dentro la mandria, incalzarlo nei tribunali (dove ci si schiera in fazioni confliggenti per "fare forza"), mostrarsi al nemico - anche nei momenti della disfatta e del dolore - sempre forti ed aggressivi. Sono le leggi della natura che hanno la loro fonte normativa nell'ideologia (=sottocultura della forza). Ciò che conta non è il bene od il male (categorie di una morale "altra"), insomma non conta il contenuto etico dell’azione, ma il criterio simbolico che ad essa si conferisce nella valutazione sociale (=comunitaria) al fine dell'affermazione di sé o del proprio gruppo familiare.
Lo Stato, il processo, il diritto, strumenti di una cultura "altra", di cui il barbaricino deve sapersi servire per instaurare il proprio potere all'interno del sistema comunitario.
Vale chi sa farsi valere, nel bene e nel male: il parametro di valore (o disvalore) non ha un contenuto etico, ma naturalistico, in un regno - come quello barbaricino - ancora regolato dalla forza. E dalla paura. L’equivoco" di fondo sulla cultura barbaricina sta soprattutto qui. Bisogna togliere al vecchio codice la maschera di un'etica romantica per svelare di che sangue grondi il volto naturalistico della barbarie di sempre.
Non sono, le mie, dissertazioni da salotto o astratte esercitazioni d'accademia, ma fatti scritti nei processi penali.

I RUOLI CRIMINOGENI
Dentro la struttura del sistema comunitario i "ruoli" criminogeni dei soggetti sociali.
Da un lato i gruppi primari ("predisponenti" e "precipitanti"): la famiglia, l’ovile, la bettola, luoghi di socializzazione e di formazione culturale originaria; dall'altro lato, in un contesto più ampio, i gruppi secondari: la scuola, il municipio, l’istituto di credito, la chiesa, i partiti e le varie istituzioni dello Stato. Dentro questa dicotomia il barbaricino - giova ripeterlo - vive diviso lo scontro tra più culture e/o tra più sistemi, tra la scuola ufficiale e la scuola "impropria", tra l’ordinamento dello Stato e la struttura normativa della famiglia, tra la lingua nazionale e il dialetto locale.
Nella geo-etica comunitaria preminente il ruolo criminogeno della famiglia-Stato.
I rapporti di forza interfamiliari (internazionali) sono regolati dal sistema normativo vigente nelle comunità pastorali. Lo schema della condotta delittuosa del singolo si forma all'interno del nucleo familiare: è lì il vero Tribunale in cui si decidono le sentenze di morte.
Ogni sistema produce un corpo di leggi che regola i rapporti interfamiliari, un codice di comportamento funzionale al sistema stesso.
Qui si ribadisce quanto dissi in Commissione.
La famiglia, in quanto luogo di socializzazione primaria, costituisce il canale più importante di comunicazione normativa. Essa è la sede di apprendimento delle regole di condotta, in cui si definiscono i "ruoli" dei rispettivi membri secondo un modello gerarchico regolato dal principio di autorità.
Sotto questo principio la famiglia opera come strumento di controllo sociale nella determinazione della devianza giovanile. In essa si formano i primo fattori criminogeni, si costituiscono i ruoli sociali, e i minori, in un processo di identificazione con gli adulti, assumono a modello valori e schemi di condotta tipici dei genitori.
È li, dentro il nucleo familiare, che, spesso, sorge la spinta originaria al delitto, le pressioni, gli stimoli "normativi", in cui la figura materna esercita, all'interno del nucleo, una "funzione" egemone.
La solidarietà ideologica degli adulti nei confronti della delinquenza giovanile molto intensa: sono loro che acce in casa la refurtiva, che legittimano il delitto balordo facendo blocco col minore che introducono alibi falsi nei processi e così via.
Notevole il ruolo della figura paterna sia perché essa costituisce un imprescindibile modello di identificazione bambino in età più avanzata (adolescente), sia perché interagisce nel comportamento della madre determinando particolari atteggiamenti di costei nei confronti del minore.
Nella società barbaricina il padre presenta l’elemento di qualificazione della famiglia e il modello normativo di base per la costituzione della personalità sociale del giovane.
In termini psico-analitici si può affermare che la figura paterna è decisiva nella formazione del Super-Io del figlio, perchè di norma è il padre che punisce, che vieta o che permette, che premia e educa all’obbedienza ed al principio di autorità.
E fattori criminogeni è utile ribadirlo anche in questa sede - sorgono a contatto con la natura, nell’ovile, dove lo scontro di forza è dettato dalla struttura primordiale dei rapporti economici, o dei rapporti sociali, codificati nella tradizione e negli usi.
L'ovile è la sede della scuola impropria in cui si completa il processo di identificazione del minore con l’adulto. E' la scuola della natura, con le sue "leggi" (codice naturalistico), le sue regole di condotta, il suo universo di valori (= disvalori), i suoi silenzi, i suoi gesti di prudenza o di coraggio in un mondo - si diceva - regolato dalla forza.
Dentro la campagna della Sardegna centrale il "vero focolare", il "teatro" di ogni storia criminosa, riferibile all'ideologia naturalistica del banditismo sardo, come fenomeno più propriamente barbaricino.
Alla logica delle cifre, nella geografia del delitto, a nessuno è lecito sfuggire: nelle campagne dell’interno i furti di bestiame, gli sgarrettamenti, gli omicidi per vendetta, tutte le grotte (o quasi) degli ostaggi, vittime di sequestro per estorsione.
Ogni "area" - antropologica o normativa" (= culturale) - produce i suoi delitti (ad Alghero la droga, ad Orune il furto di bestiame), e produce i suoi testimoni: quello che parla troppo (il gallurese), e quello che non dice nulla (il barbaricino).
A casa con la madre, nell'ovile col padre, nella bettola, - luogo di socializzazione interfamiliare - il barbaricino istituisce i suoi rapporti sociali con la comunità. Nella bettola si esce in qualche misura allo scoperto: li si incrociano le affinità, si intessono rapporti, spesso si cospira l’azione delittuosa quando non si definisce la trattativa del furto del bestiame ("sa bona manu").
Al di là delle varianti tecniche il delitto barbaricino, come fatto culminante e contraddittorio delle comunità pastorali dell'interno, tende a conservare le proprie identità e/o struttura morfologica.
La campagna resta negli anni '90 il grande tema irrisolto della "questione barbaricina". Il discorso ideologico sulle "cause" del banditismo, come problema politico (= di politica criminale), passa attraverso il mutamento del "blocco storico", ovvero la riforma radicale delle strutture economiche e culturali, da cui germina la patologia tipica del fenomeno delinquenziale.
Campagna, ancora una volta, come Sardegna centrale, dove la mappa criminogena coincide con l’area normativa dalla sottocultura il parametro obiettivo conferma la consistenza di una teoria.
L’epicentro dell'abigeato e del sequestro per estorsione resta sempre lo stesso, circoscritto nella zona delinquente (che non va intesa in senso bio-genetico, ma socio-antropologico): identici gli autori, i soggetti passivi, l’oggetto, gli atti tipici dell’actio sceleris, prodotti tutti dalla stessa area, dalla stessa cultura, dagli stessi sistemi normativi.
Persino i luoghi esplicano in Barbagia ruoli criminogeni costanti: i percorsi notturni degli abigeatari, e quelli dei sequestratori, sono puntualmente gli stessi.
La mappa criminogena con i suoi punti nevralgici: le grotte degli ostaggi: nel Montalbo di Lula o nel Supramonte di Orgosolo, o nei boschi del triangolo FonniDorgali-Orune.
Gli itinerari degli emissari: un cerchio criminogeno che ruota nei paesi attorno a Nuoro "campagna con molto cemento.
Mai visto un riscatto pagato ad Iglesias o ad Alghero, mai visti banditi cagliaritani sequestrare facoltosi possidenti del Nuorese. Bisogna entrare in carcere per conoscere, da un osservatorio privilegiato, l’identità antropologica degli autori del sequestro, e bisogna entrare nelle caserme dei "paesi caldi" per saperne di più sui passi obbligati degli abigeatari.
In Barbagia c'è ancora l’ovile, c'è - alle soglie del 2000 - il deserto nelle campagne e c'è - drammatico - il furto di bestiame (4.635 capi nell'87, circa come 20 anni fa): oggi come ieri lì si massacrano ancora uomini e bestie.
II fatturato di Orune: 3.500 abitanti, una fabbrica di morte che produce in media 4 omicidi all'anno negli ultimi lustri, con sei latitanti in attività. E il fatturato vale, con andamenti ciclici, per Fonni come per Benettutti, per Oniferi, per Desulo o Mamoiada. Elemento essenziale del sequestro il latitante, pur esso prodotto esclusivo dell'area barbaricina.
Ha detto un noto Giudice Istruttore: "non tutti i barbaricini sono banditi, ma tutti i banditi sono barbaricini". La battuta restituisce l’aggettivo autentico ("barbaricino") al volto dell'anonima sequestri.
Ma attenti alle soluzioni militari: il problema del banditismo non si risolve, né con le "cartucce da 200 lire né con i gas nel Supramonte".
Dentro il freddo linguaggio delle cifre si chiude il quadro analitico del fenomeno, quello prognostico non costituisce oggetto del presente discorso.
NUMERO /2
Anno 1990, n. 2
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