Abbiamo assistito alle più strabilianti trasformazioni economiche, sociali e culturali, considerando le fasi difficili più come crisi di crescita che di involuzione. Eppure a partire dagli anni 70 fino ad oggi, in varie forme, si è assistito ad un' accelerazione di un modello di interpretazione del mondo e della società che ha posto fine all' ottimismo occidentale. È emersa sempre più a tinte forti la dimensione pessimistica della vita, in termini di incertezza, insicurez- za e rischio del futuro. I bambini sono diventati uomini in una temperie in cui la catastrofe veniva prefigurata come messianica. D'altronde che cosa ha trasmesso la generazione del '68 a quella immediatamente successiva? Se non sfiducia nelle istituzioni e diffidenza delle ideologie. Non certo un messaggio di speranza. L'invadenza dell'adulto, per questo peccato originale, nello sviluppo di fasi importantissime della vita di relazione dei propri figli ha fatto il resto. Tanto che oggi il futuro lontano è considerato dai giovani imprevedibile e forse inconcepibile. Nella serie questa è da annoverare come la quarta generazione perduta del 2000, che si avvicina ai trent' anni senza avere mai avuto la possibilità di trovare un posto di lavoro.
Se lavorare stanca, è pur vero che essere disoccupato logora. il prezzo, che si paga in termini morali, economici e politici, è altissimo. Nello sfondo ci sono i mutamenti strutturali degli ultimi vent' anni. "L'indeterminatezza della condizione giovanile supera oggi la fase della transizione scolastica, il cui prolungamento aveva costituito il supporto principale della diffusione del modello adolescente negli anni Sessanta". Sotto quest' aspetto non c'è da stare tranquilli, perché l'attuale sviluppo economico nelle società industrialmente più progredite non è tanto il permanere di vaste aree di disoccupazione, quanto il restringersi della base occupazionale, in generale.
Qualche anno fa i riflettori si erano accesi sulla formazione e 1'istruzione in Italia dopo che uno studio di Bankitalia aveva rivelato che, nonostante l'alto tasso di disoccupazione, le imprese trovano difficoltà a trovare mano d'opera. Una delle cause di questa contraddizione era stata imputata alla bassa qualità della formazione, confermata dal rap- porto dall'Ocse sulla scuola, che collocava il nostro paese al fanalino di coda. Non negando gli ambiti di mi- glioramento esistenti nel nostro sistema formativo, oggi sembra che quell' affermazione non fosse tanto pertinente, al di là dello scalpore che creò. La disoccupazione è ormai una condizione sociale che non risparmia neanche quelle nazioni tradizionalmente a posto con gli standard formativi.
Altre sono le dinamiche!
La verità è che tutti i paesi si trovano ormai a dover fare i conti con i forti mutamenti scientifici, culturali, economici rispetto ai quali i sistemi educativi e non solo si trovano in difficoltà. Paradossalmente più ricerca e più tecnologia provocano maggiore disoccupazione e fuoriuscita dal mercato del lavoro. In Europa il futuro si gioca sul profilo sempre più alto delle conoscenze e delle loro applicazioni, le prestazioni più modeste richiamano la manodopera dei paesi in via di sviluppo. Il capitalismo, moribondo degli anni cinquanta, ha saputo trovare le soluzioni organizzative che lo liberassero da quei controlli territoriali, nazionali, fiscali e sociali.
Ha avuto la forza, nel giro di una generazione, di traghettare interi Paesi dal feudalesimo all' era post-industriale, senza passare per le strettoie della cultura generalizzata, ma attraverso le alte competenze di pochissimi. È chiaro che il modello durerà finche ci saranno nel mondo le sacche di sottosviluppo sociale. Anzi, nel frattempo, cercherà di trascinare nel baratro la civiltà occidentale, ricca di diritti umani, sociali e culturali, visti sotto l'ottica degli alti costi, e per questo osteggiata da quella del denaro.
I dieci milioni di posti di lavoro, mediocri e mal pagati, creati negli Stati Uniti non devono tentare i nostri leader politici a percorrere le strade di una riproduzione del libero mercato americano, che macina, con una forza inaudita e senza pìetas, tutto, purché tornino i conti.
Anche da noi gli epigoni della rivoluzione culturale hanno già da tempo iniziato a dare il benvenuto nell' età del ri- schio, quale valore di riferimento di questa fine secolo. La voglia di sicurezza di un popolo viene vista da chi detiene il potere economico come un freno alla crescita, in quanto ha come riferimento il grembo materno.
Cipolletta nel libro, La responsabilità dei ricchi, la chiama la sindrome di Peter Pan. Per i giovani ci sono riusciti. E con quali conseguenze!
Ora tocca al movimento operaio.
Si gioca a tutto campo: il proprio lavoro, il proprio salario, il proprio status.
È questa la nuova storia? Sembra la storia di sempre!