L'Umanità e il surplus
Fino a quando cioè non vi è surplus oltre il prodotto necessario alla sopravvivenza degli stessi produttori, non vi è la possibilità di divisione del lavoro (contadini, operai, artigiani, insegnanti, medici, avvocati, artisti...) e perciò non vi sarà sviluppo della ricerca e delle tecniche di specializzazione necessarie per l' incremento della produttività.
L'aumento della produttività del lavoro oltre il livello di sussistenza, crea un surplus (sovrapprodotto) che libera una parte della comunità dalla necessità di lavorare per il proprio mantenimento. Intorno alla questione della ripartizione di questo surplus, nasce il conflitto politico per il potere e si delineano gruppi egemoni e gruppi subalterni. Lo Stato democratico nasce dal compromesso storico fra "il tradizionale privilegio della proprietà e il mondo del lavoro organizzato, da cui nasce direttamente o indirettamente la democrazia moderna (attraverso il suffragio universale, la formazione dei partiti di massa...). "(Bobbio). Il lavoro generalmente inteso come attività fisica e intellettuale e come complesso di energie "volte al conseguimento di uno scopo patrimoniale", è dunque alla base della produzione di beni e di ricchezza di una comunità e perciò alla base del processo di sviluppo economico, sociale e culturale della stessa. Il lavoro è progresso civile e tecnologico. Qualsiasi sistema di organizzazione generale della società, passa attraverso l'organizzazione del lavoro, dei suoi tempi, delle sue regole, della sua capacità di produrre e distribuire ricchezza. Ma la produzione non produce solo merci, ma anche rapporti sociali; produce cultura e determina financo modificazioni antropologiche. Si pensi a cosa abbia significato per la civiltà occidentale a prevalente economia agricola, la rivoluzione industriale prima e quella consumistica, cibernetica e informatica poi. Quasi tutti gli ordinamenti giuridici degli stati a democrazia avanzata, considerano il lavoro come il più importante fenomeno della vita sociale. Dal suo riconoscimento come diritto costituzionale alla sua tutela economica e giuridica nelle legislazioni ordinarie, il lavoro, fonte di reddito individuale e nazionale, è il fondamento stesso della Repubblica italiana (Art. l).
Occupazione e automazione
L'apparato industriale, impegnato da sempre nell' opera di trasformazione dei prodotti in beni per mezzo di un'articolata organizzazione tecnica ed economica, sta subendo oggi, nei paesi altamente sviluppati, una modificazione strutturale di portata epocale. Il suo sviluppo si era fondato da sempre sulla disponibilità di alcuni fattori congiunti, quali quelli dell'investimento di ingenti capitali, della disponibilità di materie prime, energia motrice e acque perenni, di applicazione della scienza alla tecnica, di organizzazione d'impresa, ma soprattutto di forza lavoro. La macchina non "intelligente", infatti, che era stata la protagonista della prima rivoluzione industriale, aveva cioè richiesto il diretto e costante intervento dell'uomo per il suo funzionamento.
. Quella operaia, nei paesi industrializzati, nacque infatti come classe obbligata per sopravvivere a vendere la propria forza lavoro al proprietario dei mezzi di produzione. Dal compromesso, dopo dure lotte, fra la classe operaia e il capitalismo (proprietario dei mezzi di produzione) è nato nel Novecento lo "Stato di benessere" (Bobbio). Ciò che è accaduto, soprattutto in questo ultimo ventennio, ha cambiato il rapporto esistente fra quei fattori congiunti di cui si è detto sopra. Lo sviluppo della scienza e della tecnica, basato sull' informatica e sulla cibernetica, ha aperto una fase inedita nel mondo contemporaneo. Una fase che sposta qualitativamente il livello del conflitto fra il lavoro e l'impresa, nel campo dell' occupazione e della retribuzione salariale, della formazione professionale e della ricerca, dei gradi di autonomia e di intervento nei processi produttivi, nel campo infine della flessibilità, della rinegoziazione degli orari e della composizione della forza lavoro (più tecnici e meno operai). Il tutto dinanzi alle vorticose innovazioni tecnologiche. Cibernetica e automazione rappresentano una nuova rivoluzione industriale, che richiede investimenti, alte conoscenze e strutture tecniche e scientifiche d'avanguardia. Ma soprattutto un ripensamento del concetto di lavoro e di tempo del lavoro. Viviamo in un'età in cui i cervelli artificiali (le macchine "intelligenti") sono in grado di compiere autonomamente lavori di altissima precisione che l'operaio più bravo svolgerebbe in tempi incomparabilmente più lunghi e con maggiore dispendio di energie. La combinazione fra cervelli elettronici (computers) e macchine esecutive (robot), permette di automatizzare interi processi produttivi, diminuendo drasticamente il bisogno di manodopera, sempre più specializzata (cioè tecnici e non operai), e con un livello di produttività indiscutibilmente maggiore. Migliorare la produttività dei fattori di produzione significa inoltre provocare la riduzione del costo di un oggetto. Cambia cioè il mercato. Se per i giapponesi, ci ricorda Aznar, sono necessarie 17 ore per costruire un'automobile mentre ne occorrono 25 agli americani e 36 agli europei, a qualità eguale, l'automobile giapponese vincerà la corsa della competitività. Ma la rivoluzione informatica, non ha solo investito il comparto industriale.
Automazione e disoccupazione
Essa ha invaso, trasformandoli profondamente, tutti i settori della vita economica e sociale. Si pensi al settore dei servizi. Dai più svariati self service (nelle banche, negli uffici, nei rifornitori di benzina, nelle stazioni ferroviarie, marittime e aeroportuali, nei caselli stradali...), alle informazioni telematiche, dalle carte magnetizzate alle obliteratrici automatiche, dai fax alle macchine da scrivere a comando vocale, il computer ha in molte operazioni sostituito l'uomo. Quanti impiegati di banca, quante segretarie e dattilografe, quanti fattorini o postini, quanti benzinai, si chiede ancora Aznar dovranno perdere il lavoro? Lo stesso accade nell'agricoltura. L'alta tecnologia meccanica delle macchine e l'uso dei fertilizzanti chimici hanno aumentato la produttività e ridotto in termini di milioni di unità, i contadini che avevano fino a poco tempo prima costituito la forza lavoro. Questo è dunque lo scenario che, dal Giappone agli Stati Uniti, dalla Francia alla Germania, dall' Inghilterra all'Italia, pur con tempi e modalità differenti, si dispiega davanti ai nostri occhi: la caduta tendenzialmente irreversibile dell' occupazione. Non siamo solo di fronte a una modifica qualitativa della composizione della forza lavoro, ma direttamente al suo traumatico ridimensionamento quantitativa. Il lavoro a tempo pieno, per tutta la vita e per tutti, secondo le forme che abbiamo conosciuto fino adesso è finito. La disoccupazione, da fenomeno congiunturale, è diventato un fenomeno strutturale in virtù del mutamento di civiltà. Oggi si producono beni tre volte più di ieri, con la metà della mano d'opera. O si entra celermente entro quest' ottica, che è di per sé come già detto rivoluzionaria, o si rischia di cristallizzare pericolosamente una situazione, iniqua e difficilmente governabile, di società duale: una parte, specializzata, integrata e informatizzata che produce ricchezza e un' altra sempre più ampia che, fuori dai circuiti produttivi, non lavora e vive grazie alle forme di assistenza finanziate attraverso il lavoro della prima parte. Non si riuscirà a risolvere il problema della disoccupazione, se si continueranno a ricercare vecchie soluzioni a sfide del tutto inedite. È necessaria da parte di tutti una vera e propria mutazione culturale. Il problema è quello di riuscire a volgere in positivo il fenomeno tecnologico. E cioè a dire riuscire a creare occupazione senza per ciò ridurre l'aumento della produttività (infatti a produzione costante, se la produttività cresce, l'occupazione diminuisce) e senza nel contempo demonizzare il progresso informatico (qualsiasi riedizione del luddismo in chiave cibernetica sarebbe insensata). Per altro la scelta esclusiva dell' aumento illimitato della crescita economica ritarderebbe la soluzione del problema. Per tre ragioni. Intanto perché una crescita eccessiva e sconsiderata non può che accelerare il processo di degrado ambientale del pianeta e di saccheggio delle sue risorse. Su un tale ragionamento alla Conferenza di Rio si è posto un punto fermo. Secondariamente perché le previsioni di crescita mondiale fino al duemila, segnerebbero una media intorno al 3%; il che comunque non riuscirebbe a garantire una sconfitta della disoccupazione. Terzo punto perché, o i paesi industrializzati pensano di suddividere la torta della ricchezza e del mercato mondiale anche con i paesi poveri, e si decidono ad esportare nel terzo mondo modelli di sviluppo finalmente sostenibili con l' eco sistema (sviluppo solidale), o si porrà per l'intero genere umano una vera e propria questione di sopravvivenza. La crescita quindi, pur rimanendo attualmente una variabile importante e comunque ineliminabile, da sola non basta più. Ai fini dell' occupazione, infatti, poco importa il tasso di crescita dell'economia, se la produttività necessaria per conseguirlo distrugge più occupazione di quanta non ne crei l'espansione. A partire dagli ultimi mesi del governo Ciampi, ad esempio, al primo semestre del gabinetto Berlusconi, fino a quelli Dini e Pro di si è registrata una media di crescita economica del più 2,0% e la perdita secca di 500 mila posti di lavoro (12,4% sono i disoccupati in Italia al marzo 1997,21,8% nel sud).
La particolarità della crisi in Sardegna
La situazione sta diventando drammatica in particolare in Sardegna. Qualsiasi programma di alternativa che abbia, nella nostra terra, il fine della Rinascita, dell'Autonomia e del Federalismo, non può non ripartire dalle questioni della cultura, dell' occupazione e dello sviluppo. Nel Sulcis, nelle Barbagie, nell'Ogliastra e in molte aree della provincia di Sassari siamo all' emergenza. La nostra Isola vanta il triste primato di un tasso di disoccupazione fra i più alti d'Europa (il 22%). Ogni serio tentativo di integrazione ci vede marginali e periferici.
L'aggravarsi di una crisi di tipo strutturale e il permanere di una condizione di diseconomia generalizzata (viabilità e trasporti, superamento della frammentazione fondiaria e riforma del sistema agro pastorale, meccanizzazione e informatizzazione produttiva, qualificazione delle maestranze, disponibilità di acque perenni e di reti telematiche, metanizzazione e sfruttamento di fonti di energia) non solo impediscono la nascita di un tessuto di piccole e medie imprese forti e competitive sul mercato (interno e nazionale), ma rallentano altresì il processo di modernizzazione di attività, come quella turistica, per noi di primaria importanza. Così non supereremo l'isolamento economico, e non riusciremo ad affrancarci dalle politiche assistenziali che ci legano a filo doppio col governo centrale. L'Autonomia, intesa come capacità di governare sé stessi e come capacità di misurarsi con un proprio automodello culturale (che oramai non esiste più), deve fare i conti con questa realtà. Per altro il fallimento delle leggi speciali, dei finanziamenti a pioggia (spesso fonte di corruzione), delle politiche del credito, l'incapacità palese dei gruppi dirigenti sardi di comprendere appieno le ragioni di fondo di una crisi drammatica e devastante, l'assenza di una vivace e intraprendente borghesia illuminata stanno riconducendo la Sardegna e il mezzogiorno d'Italia ad essere una semicolonia del capitale settentrionale (Salvemini). Le risorse talvolta ci sono ma sono male utilizzate. L'Agenzia regionale del lavoro non è riuscita per anni a spendere centinaia di miliardi, ignorando perfino i fondi della Cee. Una situazione di emergenza deve essere affrontata con misure straordinarie, caratterizzate dalla capacità di creare subito occasioni di lavoro e di raccordare interventi congiunturali con le esigenze strutturali. Oggi, modello culturale e condizione socio-economica vivono in uno stato di incongruenza e di conflitto. Il potere consumistico - che ha lentamente ma inesorabilmente creato le condizioni di un deleterio processo di sradicamento culturale e di mutazione antropologica (Sardegna come non-luogo) - attraverso i suoi canali, ha sempre detto di credere nei giovani, di amare i giovani, di puntare tutto sui giovani. Ma la realtà offre spesso per i giovani sacrifici, disagi, ingiustizia, solitudine, emarginazione. Così oggi molti sociologi spiegano le manifestazioni violente e criminaloidi, la ricerca ossessiva di uno sfogo, di uno strumento di ribellione, di una rappresentanza, come di chi si sente frustrato e deluso, di chi non si riconosce più nei valori del gruppo sociale d'appartenenza. Chi è riuscito ad avere una compensazione e una sorta di riparazione finanziaria, evita la contrapposizione e l'autoesclusione. Chi invece non ha protezioni economiche di nessun tipo e vive di non-lavoro, rischia, in taluni contesti, di essere stritolato da varie forme di carognismo sociale (sotto lavoro, lavoro nero, sfruttamento, corruzione, manovalanza della criminalità organizzata). lo ho la sensazione che oltre ad una vera opposizione politica, manchi innanzitutto un' alternati va culturale, a partire da noi stessi, dalla ridefinizione del concetto di identità in senso moderno e dalla riconsiderazione dell' idea dell' automodello come vera risorsa con la quale ci si confronta col mondo. Un'alternativa di matrice antagonista, capace di farsi portatrice di una rinnovata idea della differenza, della plurietnicità, dell' altruismo e della democrazia, capace di incoraggiare in virtù di ciò tutte le spinte centrifughe, di rottura e di valorizzazione delle infinite peculiarità e specificità, soprattutto quella sarda, per disarticolare i centralismi e frenare l' omologazione, al fine di esaltare le individualità sconfiggendo nel contempo l'individualismo. Ciò potrà significare per noi sardi ridiventare protagonisti del nostro futuro.
I nuovi modelli
Da un punto di vista economico, molti concordano sul fatto che nell' immediato si dovranno attivare politiche d'emergenza, perché la situazione sociale in molte aree dell'Europa e del nostro paese è diventata esplosiva. Si dovranno dapprincipio ricreare posti di lavoro "tradizionali" e parallelamente sostenere programmi coordinati di investimenti in opere e servizi, in ricerca, in tecnologie e in formazione. Si dovranno convogliare, nel solco di una politica di risanamento del debito, risorse pubbliche (attraverso la fiscalità generale riformata in senso federalista, la tassazione delle rendite finanziarie e fondiarie e sui consumi secondari) verso quei settori che possono creare nuove opportunità di lavoro soprattutto con particolare attenzione alle risorse del territorio: forme decentrate di lavoro a distanza, nuove figure professionali legate alla telematica e all'informatica, servizi di tutela ambientale e di utilizzo del patrimonio artistico, lavori socialmente utili legati al welfare (servizi agli anziani, terzo settore e non profit), turismo, infrastrutture e tendenza verso inedite forme di flessibilità, mobilità e lavori interinali. Ma in prospettiva bisognerà premunirsi affinché si realizzi l'obiettivo più suggestivo che proprio la società tecnologica rende possibile: diminuire le occupazioni di tutti per aumentare il tempo per vivere. Se le macchine robotizzate e informatizzate producono ricchezza da sole, questo vuoI dire che si potrebbe aprire una nuova straordinaria frontiera di liberazione dalla ripetitività, dalla costrizione e dalla alienazione del lavoro. Ci sarebbe un tempo sottratto alla macchina e reso disponibile per vivere, creare e coltivare i propri interessi culturali e sociali. Un tempo liberato. Il progresso tecnologico aprirebbe così l'opportunità per costruire e ripensare una civiltà davvero nuova, nella quale per la prima volta non si vivrebbe per lavorare ma si lavorerebbe per vivere. Uno dei principali passaggi quindi è quello della riduzione degli orari di lavoro per una redistribuzione dello stesso che sia capace di liberare più tempo per la vita. Lavorare meno dunque, per lavorare tutti. Se si è detto infatti che grazie all'automazione e all'informatica, oggi si produce tre volte più di ieri con la metà della mano d' opera, questo significa che ciò che diminuisce non è la ricchezza (surplus), ma il tempo necessario a produrla. Ciò che si ridurrebbe sarebbe il lavoro, non il profitto. Perciò la ridistribuzione a orario ridotto del lavoro può avvenire a parità di salari. Se trent' anni fa per produrre 50 automobili necessitavano due giornate lavorative e 40 operai, adesso in una sola giornata e con venti operai se ne producono 150. Il problema sarebbe come far rientrare, a ricchezza aumentata, gli altri venti nel ciclo produttivo. La ricchezza non può essere redistribuita per via assistenziale. Così non si può continuare a lungo. È la stessa pace sociale che rischia di essere compromessa. Solo con la riduzione del tempo e la ridistribuzione del lavoro si può aprire una prospettiva di lungo termine. Ma per realizzare ciò serve da subito un nuovo patto sociale fra impresa e sindacato con l'intervento dei governi nazionali e regionali. Un patto che sappia innanzitutto distinguere la redistribuzione della ricchezza (che il mercato da solo non può fare) e quella del tempo necessario per produrla. Nel primo caso si possono ad esempio agevolare (con la riduzione degli oneri fiscali) tutte quelle aziende, inizialmente non sottoposte alla concorrenza internazionale, che praticano la politica della riduzione dell' orario reimmettendo nella produzione almeno una parte dei lavoratori espulsi dal ciclo. Spetterà ai governi riorientare la spesa sociale al fine di sostenere le imprese (secondo Gorz, con un "secondo assegno") che accettano la sfida. Riorientare la spesa, vuoI dire trasformarla da passiva in attiva. Oggi le politiche di assistenza, fra erogazione di indennità di disoccupazione e ammortizzatori sociali vari, costano al nostro paese decine di migliaia di miliardi. I lavoratori in cassa integrazione, i giovani in cerca di una prima occupazione non vogliono assistenza, vogliono lavoro. Vogliono poter produrre ricchezza. Perché il lavoro è autonomia, è libertà. Perché attraverso il lavoro ci si sente parte attiva di una comunità; ci si sente protagonisti del proprio futuro. Perché attraverso il lavoro e la professionalità che esso incarna, si esprime il riconoscimento di una propria identità, anche culturale. Per centinaia di migliaia di giovani sta diventando davvero difficile immaginare un futuro. Un giovane che non riesce a programmare il suo futuro è come una barca senza bussola, senza prospettiva, senza orizzonte. O rimane legata alla bitta o finisce alla deriva. In questo senso il lavoro è diventato una grande questione democratica. Su questa questione il paese rischia di spaccarsi in due. La difesa di una società multietnica, multiculturale e plurilingue, l'occupazione e la conquista di una nuova qualità della vita dovranno essere l'obiettivo primario delle forze di progresso dell'Italia e dell'Europa più in generale. L'uguaglianza delle opportunità e dei diritti, il punto dirimente che distinguerà la sinistra dalla destra. Ma oggi c'è un'altra ragione che ci suggerisce di ricominciare dal lavoro. È una ragione che potrà unirci e che sta alla base di riflessioni già fatte; di un tentativo di analisi delle contraddizioni del presente e dello sforzo di rielaborazione che vuole ritornare a credere ai tempi lunghi della politica e alla possibilità di ricercare percorsi inediti per la soluzione di questioni che pongono l'umanità a un bivio: da un lato una strada di progresso sociale, economico e politico sul solco di una democrazia planetaria sempre più matura, dall'altro il rischio di un ritorno al Medioevo del diritto in nome della competitività coi paesi del sud-est asiatico (che giocano sui bassissimi livelli del costo del lavoro e sullo sfruttamento minorile) e il rischio dell' autodistruzione dell' ambiente e della specie. Oggi l'umanità non può permettersi di sbagliare in modo radicale le soluzioni. La discussione scaturita alla Conferenza mondiale del Cairo, su un punto importante è stata univoca. L'inarrestabile degrado ambientai e, il rapporto esplosivo fra nord e sud del mondo, la riorganizzazione tecnologica ed informatica dei grandi sistemi industriali e delle imprese, il problema della disoccupazione strutturale che colpisce i paesi più svi- luppati, il boom demografico e il preoccupante rapporto tra popolazioni e risorse, pongono al centro dell'attenzione in- nanzitutto il ripensamento della qualità dei modelli di sviluppo e la questione della produzione e ridistribuzione della ricchezza secondo logiche di democrazia economica.
Per questo, ancora una volta, il lavoro, riveste un ruolo sociale e politico di fondamentale importanza. Da una sua riorganizzazione, quantitativa e qualitativa, pensata all'interno delle nuove sfide tecnologiche e cibernetiche, potrebbe dipendere l'inizio di una nuova era.