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Essere scomodi
 
“Essere scomodi”, sembra questo il ruolo che il nostro giornale voglia ritagliarsi, ponendosi spesso in una posizione alternativa, quando non di aperto contrasto, con chi ricopre le cariche di governo della nostra città o della provincia o della regione. Non è una scelta studiata ad hoc per richiamare l’attenzione. È che troviamo sempre più difficile essere in sintonia con l’operato dei nostri amministratori.
Il ruolo in verità è molto faticoso e provoca un notevole senso di solitudine, ma è anche l’unico modo che abbiamo per mantenere la nostra libertà di espressione. Anche in questo numero, pur consci che in questo momento sarebbe stato più conveniente tacere, data la nostra inequivocabile appartenenza al centrosinistra, non abbiamo potuto fare a meno di denunciare gli atteggiamenti di prevaricazione e prepotenza di chi è capace di sollevare più forte la voce per imporre le proprie scelte.
Sull’ultimo numero di Nuoro Oggi, nel mio articolo dal titolo “Democrazia in crisi”, terminavo il pezzo con questa frase: “L’unico modo di non far morire l’idea di democrazia, quella delle poleis e della forza della rappresentanza, sta nel cercare nuove forme di coinvolgimento allargato e collettivo di tutti (non mi pare così difficile oggi con la diffusione della comunicazione globale!), non certo in un nuovo acritico affidamento”.
Oggi, a distanza di qualche mese e dopo le vicissitudini preelettorali (primarie si primarie no; tavoli delle trattative lasciati e ritrovati; nomi di sindaci e presidenti proposti e ritirati; composizioni di liste più o meno meditate o affrettatamente risolte; mugugni e scontenti generali che costringono molti ad andare al voto con poca convinzione se non addirittura con un senso di nausea accresciuto anche dagli ultimi indecenti minuetti di armonie riconquistate dopo anni di lotte palesi o intestine), sono ancora più convinta non solo del fatto che il deficit di democrazia che stiamo vivendo abbia avuto una sua evidente dimostrazione, ma che non si può neppure avere il minimo dubbio sull’errore della pratica dell’affidamento alle decisioni ad altri, siano essi dirigenti dei partiti, leaders di associazioni o governatori di Regione.
Tralascio di elencare gli errori che hanno portato alla sensazione di amarezza diffusa per le soluzioni finali adottate, perché lo hanno fatto già diversi collaboratori in questo numero.
Mi preme sottolineare, però, un atteggiamento che penso sia alla base del malessere diffuso di tanti come noi che hanno creduto nella possibilità di un vero cambiamento: la constatazione cioè di quanto siano ancora in uso nella pratica politica l’arroganza ed il disprezzo nei confronti degli altri considerati, a torto o a ragione, più deboli (numericamente o come forza elettorale, non certo intellettualmente o nella progettualità, ché il problema del confronto neanche si è posto, d’altronde è importante vincere non certo essere migliori) e di conseguenza la lotta per l’affermazione della propria autocrazia. Si badi bene “autocrazia”, non autorevolezza e quindi autorità riconosciuta!
Il riconoscimento dell’autorevolezza non lo si può imporre; viene da sé per la fiducia conquistata, per i problemi risolti e i progressi favoriti, insomma per le virtù di governo dimostrate.
Che fare, (l’espressione famosissima, come si vede, è sempre attuale anche se riferita a contesti molto differenti), allora?
Ancora una volta delusi, senza alcun affidamento a guide forti, consci di attraversare un crocevia di problemi ereditati dal passato, quindi assai difficili da scardinare, e proiettati nel futuro per le soluzioni, continuiamo testardamente a convincerci che comunque vale la pena di continuare ad esprimere liberamente il nostro pensiero.
Sappiamo che la pratica della democrazia è spossante, perché le regole su cui dovrebbe fondarsi spesso non vengono rispettate: non è praticato infatti da chi detiene il potere il principio basilare di rinuncia ai propri interessi a favore di quelli collettivi; non c’è un dialogo paritario tra governati e governanti, perché gli strumenti di pressione materiale (bisogni) e morale (soggezione) sono tanti e per lo più non consentono di esprimersi secondo il proprio modo di pensare e sentire; non è rispettata la dignità dei cittadini perché non viene loro riconosciuta la capacità o la possibilità di partecipazione e confronto per discutere e decidere su argomenti che li riguardano direttamente e quindi arricchire con proposte, idee, soluzioni il luogo di gestione della cosa pubblica.
Evidentemente dai politici che ci governano e si propongono ancora a governarci, non è stato ancora metabolizzato il fatto che è finita l’epoca della politica come hortus conclusus cui possono accedere solo gli addetti ai lavori. Le scelte pubbliche, proprio in quanto tali, devono coinvolgere e rappresentare a livello massimo la volontà collettiva.
Nessuna scelta è più pubblica delle elezioni!
Purtroppo i cittadini sono sentiti come tali e tenuti in qualche considerazione solo nel momento in cui sono elettori, perché dalle loro scelte dipende l’accesso o meno al governo.
Questa volta però, l’arroganza e la prevaricazione hanno superato anche il comune buon senso, e le attenzioni nei confronti del sentire comune sono scomparse nella confusione del balletto degli scambi, lasciando i cittadini disorientati, e forse anche disinteressati, di fronte alla nuova sfida elettorale.
La responsabilità di tutto ciò non è poca.
Si continua ad operare nella scia dello sgretolamento dell’idea democratica, che, com’è noto, è basata sul pluralismo e il confronto delle idee non sull’imposizione prepotente delle volontà dei più forti, provocando malessere ed apatia, anziché scardinare con comportamenti virtuosi le insidie che al concetto di democrazia già pervengono da una società sempre più individualista, che scientemente promuove passività ed inerzia, per perseguire i suoi obiettivi e i suoi interessi, attraverso l’annullamento delle differenze individuali e delle singole soggettività (la chiave di leggibilità degli uomini non è infatti l’identità, ma l’idoneità ad una funzione).
Non ritengo che sia utopia pensare che si possa modificare questo percorso ed agire politicamente in modo differente, per costruire una nuova pratica democratica che garantisca un livello di partecipazione più diffuso e costruisca un senso di appartenenza maggiore e più responsabile al luogo in cui si vive.
Forse basta cambiare atteggiamento.
Accettare, ad esempio, l’idea che possano esserci diversi e molteplici livelli di confronto e dibattito dai quali accogliere, senza spocchia, suggerimenti e proposte.
Non solo perché un numero maggiore di persone abbia adito al potere decisionale (già questo sarebbe tanto), ma perché vi sia un maggior ventaglio di idee da cui attingere per migliorare il vivere di tutti e contemporaneamente un controllo più diffuso dell’operato.
Ma, mi viene un dubbio: non sarà proprio quest’ultimo che non si vuole?
NUMERO /1
Anno 2005, n. 1
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