Il primo cerca il Bello, in tutte le sue espressioni e forme. È un uomo scontato, se lo vedete: fosse vestito in abito da sera, nel profondo dei suoi occhi riconoscereste la solita espressione di chi cerca un monumento perché gli hanno detto di fare così.
Il viandante è tutta un’altra pasta.
È un poeta, un sognatore. Lui non cerca il Bello, semmai cerca e basta, di qua e di là: quando trova qualcosa che lo colpisce si ferma. Per individuarli in una stessa piazza fate caso: il turista sta molto vicino a qualcosa che comunemente si definisce arte, storia, cultura, o natura.
Il viandante, in un angolo, osserva con attenzione maniacale un orribile palazzo che non c’entra nulla con il resto. In termini più precisi, il turista cerca ciò che è grande, definitivo, necessario; il viandante se ne frega, gli basta il bruttino, il mediocre, il non finito.
Entrambi hanno i loro luoghi d’elezione: per il turista, la città, i grandi spazi naturali, le meraviglie del mondo.
Al viandante resta il mondo che avanza, la Provincia. La differenza ideale tra provincia e città è la stessa che c’è tra un fiume in piena, ricco e vivo tutto l’anno, un serpente che dà la vita a tutto ciò che gli sta attorno, e dalla vita è percorso, e una pozza stagnante – direbbe il Poeta, un botro – dove al massimo crescono anguille piccole e secche, che solo ad un Poeta possono piacere, perché gli ricordano l’infanzia, il luogo nel quale è nato, sono le sue madeleines.
Nelle pozze di provincia l’acqua si ricambia soltanto nelle rare piogge primaverili, e la superficie è piatta, percorsa da una lievissima corrente, passeggera ed effimera. Un botro come il nostro per il viandante moderno è perfetto, bastano pochi segnali e capisce subito di trovarsi in una sorta di paradiso.
La bruttura, ecco il primo indizio: noterete il fremito che lo percorre quando osserva i primi palazzi, orribili, che paiono appiccicati sui lembi delle colline così, senza ancoraggi, come bimbi pronti a scivolare sulla neve. Sempre commosso osserverà la cura nel costruire tutto da capo, senza conservare abiti e suppellettili vecchie, colpevoli di ricordare il tempo in cui si era poveri e paesani, e non ricchi e cittadini (ci tengono, in provincia, a dire di essere città: come se il paesetto nel quale si consumano assomigli a Parigi, Berlino, sia pure ad Addis Abeba).
Il secondo indizio sono le piccole cose di pessimo gusto. La provincia è satura di questi oggetti, di queste immagini presenti dovunque, nelle case come nelle piazze, ufficiali ed ufficiose. Angosciati da un passato che non si vuole ricordare e da un futuro che temono non vorrà saperne di loro, i provinciali elevano targhe, statue, simulacri: forse un giorno i loro nipoti, guardandole, avranno una vaga idea di ciò che furono.
Il terzo fondamentale indizio è il senso di universalità che si respira. Da Goro a Gradisca d’Isonzo, da Lanciano a Pontedera, la Provincia è esattamente identica a sé stessa: figlia di un incrocio inammissibile tra campagna e città, da entrambe ha preso tratti che non riesce a cambiare.
Vorrebbe assomigliare alla genitrice ricca, ma ha i piedi grossi e quando si veste sembra sempre una cenerentola; disprezza la madre povera, che pure ancora la circonda, e la tratta con disprezzo e sufficienza senza averne il diritto.
Questa combinazione alchemica ha prodotto una strana creatura: quando parla, il Provinciale sottintende che il proprio discorso è valido e necessario solo per Quel luogo, il Suo, quello dove è nato.
Mai e poi mai ammetterebbe che qualcun altro abbia gli stessi problemi, le stesse ansie, la stessa mediocrità. Eppure (ed ecco il senso universale) i discorsi sono uguali da nord a sud, in Italia come altrove: i problemi di una pozzanghera sono i problemi di tutte le pozzanghere. Non farsi seccare dal sole, non far morire i girini, non finire risucchiati in qualche tombino e scomparire.
Certo per fare i viandanti bisogna saper apprezzare le piccole cose, e bisogna avere un certo sorriso, non sarcastico, ma pieno di tenerezza.
Per capire davvero la provincia forse è necessario esserci nati, bisogna aver odorato quell’aria, che poi nella maggior parte dei casi è un’aria ottima, che fa bene.
Ci sono degli odori, delle ciarle, delle lamentele, che hanno uno straordinario sapore, un gusto che nelle grandi e pompose città non si riesce a trovare.
Se poi si ha la fortuna di trovare delle cose belle, allora esse risplendono, perché non ci aspettavamo di trovarle là, in mezzo a tutto il resto, che proprio bello non è. Si pensi al viandante che arriva, incontrando un orribile palazzo di tredici piani, e una serie di altri ricoperti di cotto Cortina.
Entra nel centro storico, apprezza l’urbanizzazione selvaggia, la distruzione incondizionata di vecchi edifici per far spazio a nuove costruzioni, e ad un certo punto (non è un punto che gli abitanti conoscono, ci passano di fianco senza riconoscerlo, loro, assuefatti dall’abitudine) perso nel nulla del centro, alza lo sguardo e scopre un angolo di cielo incorniciato da due tetti e un poco di vernice scrostata.
Sospira, e pensa che fortuna abbia avuto a fermarsi un poco in questa cittadina.
Fa amicizia con un passante che lo invita a cena, parlandogli con odio ed amore della propria Città, e il Viandante si emoziona, perché essa è lo specchio di queste persone, questi piccoli, minuscoli eroi che con la loro presenza rendono possibile il nostro mondo, la realtà nella quale viviamo.
Rimasto solo il viandante sorride, svolge la carta stradale per riperdersi un’altra volta, o per ridiventare turista in cerca del Bello.
Nel suo intimo però, saprà che quell’angolo scrostato è la cosa più bella che abbia mai visto; resterà nella quadreria della propria memoria, in uno speciale corridoio illuminato da una luce fioca, dove le opere si osservano in controluce, con un sorriso tenero e furbo sul viso.