La novità politica più importante apparsa sulla scena politica nazionale proviene dalla “Fabbrica del programma”che Romano Prodi porta avanti a Bologna dal alcuni mesi.Una formula di costruzione di un programma basata sull’a-scolto in prima persona delle proposte e delle problematiche dei cittadini, grazie ai quasi quotidiani incontri con movimenti, associazioni, categorie lavorative, giovani, gruppi di volontariato. È un coraggioso esperimento politico che, non a caso, sta attirando l’attenzione di molti osservatori stranieri.
Di tutto questo, in Sardegna, non v’è traccia.
I partiti politici sardi continuano ad essere appesantiti da apparati elefantiaci quanto incapaci di elaborare strategie, oltre che da un’impressionante fisionomia verticale che porta i gruppi dirigenti a far calare dall’alto candidature precostituite a tavolino.
L’indice di cambiamento della nostra classe politica regionale è non a caso estremamente basso perché si è costruita tutta una fascia di dirigenti che non riesce a ipotizzare quella che è una delle caratteristiche fisiologiche di tutti i sistemi politici democratici: il ricambio dei gruppi dirigenti.
Lo scenario politico europeo ci offre infatti tutta una serie di leader che hanno abbandonato gli incarichi politici decisionali dopo un normale cursus honorum, senza per questo lasciare la politica o la capacità di far sentire la propria autorevole voce.
Solo così del resto si può assicurare una rotazione di esperienze e sensibilità; solo così si possono immettere nel discorso politico tematiche più legate alla realtà e in grado di confrontarsi con il presente.
Una società che è cambiata (nel modo di affrontare la sua peculiarità isolana, nel lavoro, nei rapporti sociali e affettivi, nella sua composizione etnica, nelle forme di consumo) si trova paradossalmente di fronte ad una classe politica che è rimasta, in maniera più o meno palese, la stessa degli ultimi 15-20 anni.
Sembra affermarsi nello scenario politico isolano una forte componente notabilare, impermeabile alle cose del mondo e alle nuove coordinate della politica internazionale ed europea.
Manca la consapevolezza che un impegno pubblico di grande responsabilità è frutto di una delega temporanea, non destinata cioè a perpetuarsi ad ogni tornata elettorale. L’impegno politico non può essere un’assicurazione sulla vita. Insomma, sulla scena ci sono partiti che sono per lo più incapaci di inserire la questione sarda nello scenario della politica interdipendente e globalizzata. Il dato che emerge è infatti la presenza di un ceto dirigente che tende all’autoconservazione, dimostrandosi nello stesso tempo privo di passione civica e incapace di leggere la società. Le candidature per le elezioni provinciali hanno rappresentato una dura conferma di questa staticità.
Si sarebbe mai potuto costruire un tentativo come quello prodiano anche da noi? Difficile, perché di programmi non si è proprio parlato, vista la priorità assegnata ai nomi e alle trattative per le candidature (oltrettutto, la presenza delle nuove province ha determinato una redistribuzione del potere su scala territoriale che ha ulteriormente spostato l’attenzione sulla nuova definizione degli ambiti di competenze dei gruppi di potere).
Se il centrosinistra isolano reputa che basti l’operato della giunta ad assicurare il governo della Regione sbaglia di grosso, e l’effetto della vittoria del giugno 2004 rischia di svanire soffocato dalle logiche e dalle burocrazie personali.
Il sociologo Francesco Ramella in un suo bellissimo saggio sulla fisionomia che sta assumendo l’elettorato dei partiti della sinistra delle regioni del centr’Italia (Cuore Rosso? Viaggio politico nell’Italia di mezzo, Donzelli, 2005) parla non a caso della rivitalizzazione della democrazia locale come una delle sfide più grandi con cui si dovrà confrontare la sinistra, specie nell’obiettivo di coordinare e fare interagire una democrazia di tipo istituzionale con una di tipo più popolare e partecipato.
Se vogliamo cambiare la Sardegna e renderla un soggetto capace di affrontare con dinamismo e con una sua peculiarità le sfide del mondo, non si può certo pensare di farlo usando il bilancino delle vecchie logiche spartitorie per salvaguardare oligarchie consolidate. Anche da noi è forte la domanda di nuove forme di socializzazione e di ingresso in politica.
Nessuno pensi di cambiare la Sardegna senza prendere atto che i cittadini devono essere parte attiva del cambiamento, con doveri e sacrifici ma anche con diritti, il primo dei quali è di esporre il proprio parere sui programmi e le riforme da realizzare.
Sono processi difficili e laboriosi, che ledono inevitabilmente interessi consolidati. Ma non si può scrivere una grande romanzo o dipingere un capolavoro della pittura solo con la tecnica: ci vogliono l’anima, il sentimento e la capacità di guardare al futuro.
