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Nuoro - La Solitudine
 
Erano passati anni dall’ultima volta. Non li avevo nemmeno più contati. Cinque, sei, sette. Forse otto. Tanti. In nave avevo dormito poco e niente. Sul pullman gli occhi mi si chiudevano da soli ma mi ero costretto a stare sveglio per guardare fuori. Avrei riposato a casa.
La mia terra non era cambiata. Non sarebbe mai cambiata. Non avevo bisogno di tornare per saperlo. Tornavo per sapere se ero cambiato io. Il cielo era livido, l’aria gelida. Non era il tempo che avevo immaginato di trovare. Ricordavo i campi inondati di luce, il cielo di un azzurro accecante. Ma era inverno e c’era aria di neve. Ho chiuso gli occhi all’altezza dello svincolo per Siniscola e li ho riaperti a Prato Sardo. Come se anche nel dormiveglia incosciente avessi percepito la vicinanza col luogo in cui ero nato. Alla fermata non mi aspettava nessuno. Camminando verso casa ho letto le scritte sui muri, accanto ad affissi sbiaditi. Quattro ragazzi, sui quindici anni, fumavano seduti sul muretto davanti al mio palazzo. Mi hanno guardato, in silenzio, mentre passavo loro accanto. Ho letto i nomi sul citofono. No non ho suonato. Nessuno avrebbe potuto rispondere.
Mi hanno svegliato le campane. Ho guardato l’orologio sul comodino: erano le 7 di sera. Faceva già buio. Mi sono sciacquato la faccia e ho guardato le luci della città fuori dalla finestra. Le strade del quartiere erano deserte. Ho camminato lentamente, guardandomi intorno, gettando lo sguardo in fondo alle vie, cogliendo gli scorci come fosse la prima volta che li vedevo. Trovavo tutto come l’avevo lasciato. Anche le crepe nell’asfalto erano le stesse. Mi sono chiesto se avrei incontrato qualcuno. Qualcuno che conoscevo. E se c’era davvero qualcuno che avevo voglia di rivedere. Mi è tornata in mente una ragazza di tanto tempo prima. Sono passato davanti al palazzo in cui abitava e ho guardato in alto, verso le finestre. Dalle serrande abbassate non filtrava luce. All’incrocio il semaforo lampeggiava arancione. Una macchina è sfrecciata a tutta velocità, spezzando il silenzio.
La città era piccola, più piccola di quanto ricordassi. Camminavo da dieci minuti appena ed ero già arrivato in centro. Sulla gradinata della chiesa sedevano dei ragazzi, zitti, con lo sguardo fisso davanti a sé. Ho ricordato il funerale di mio padre e mi è sembrato che da quel giorno fosse passata un’eternità. Ho rivisto le persone che scendevano a fatica i gradini, con la bara sulle spalle, e le donne anziane vestite di nero che mi porgevano le loro mani fredde e rugose.
Percorrendo il lastricato del Corso ho scrutato dentro le vetrine scure. C’era un solo bar aperto, in cima alla strada. Avevo bisogno di qualcosa di caldo. Sono entrato e sono andato al bancone. Ho sentito una mano sulla spalla. Mi sono voltato. Poteva avere 35, 40 anni, stempiato, con gli occhi cerchiati e un aspetto bonario. Come stai?, mi ha chiesto. Bene, ho detto. Silenzio. Un velo di tristezza gli è passato sugli occhi. Non ti ricordi di me?, ha detto. No, ho detto. Scusa, ho aggiunto. Ci conosciamo?, ho chiesto. Ha detto il suo nome. Eravamo compagni di scuola, ha precisato, al liceo. Il liceo. Ho visto i banchi in fila, uno dietro l’altro, uno di fianco all’altro, tutti vuoti. Certo che mi ricordo, ho mentito. Ti vuoi sedere con noi?, ha chiesto. Non ne ero convinto. Sì, ho risposto. Mi sono presentato agli altri che erano al tavolo con lui. Facce che mi riportavano indietro nel tempo, ma non sapevo esattamente a quando e a che cosa. Ho brindato e bevuto il vino.
Mi ha chiesto cosa facevo nella vita. Gliel’ho detto. E tu?, ho chiesto. Me l’ha detto. Mi ha raccontato di altri compagni di scuola. C’era chi aveva lasciato l’università e chi si era sposato. Alcuni avevano figli. Uno era morto in un incidente stradale. Ascoltavo senza dire niente e non ricordavo i volti delle persone di cui parlava, solo i loro nomi. Ma annuivo come se li avessi ben presenti. Come se non fossero passati quindici anni dall’ultima volta che li avevo visti.
La mattina dopo, presto, sono andato in cimitero. Ho osservato in silenzio la tomba di mio padre e ho lasciato che i ricordi prendessero forma nell’aria gelida. Ho fatto in modo che quei ricordi non varcassero il cancello insieme a me mentre me ne andavo.
Nel pomeriggio ho ripreso l’autobus. Quando si è mosso ho avuto come l’impressione di non esservi mai sceso. Il cielo era ancora plumbeo. La terra tutt’intorno immobile e come congelata. Sul ciglio della strada, in un fosso, la carcassa di un auto carbonizzata, inclinata come se stesse cercando di risalirlo.
Ho chiuso gli occhi e ho pensato. Ho pensato a quando sono andato via per la prima volta. Alla mia vita e a come era cambiata. E a tutto quello che avevo lasciato indietro e che non sarebbe più stato mio. Ho riaperto gli occhi e mentre l’autobus svoltava lento e pesante ho letto la scritta bianca su un cartello azzurro: Nuoro – La Solitudine. Non ci avevo mai fatto caso. Ho pensato a uno che arriva da fuori e legge quel cartello lungo la strada. Nuoro – La Solitudine. Ho chiuso nuovamente gli occhi e nell’oscurità si sono accavallati luoghi e persone della mia vita passata. Mi sono sentito improvvisamente solo. Per un istante ho desiderato fermare il conducente, scendere dall’autobus e tornare indietro. Solo per un istante. La vettura ha accelerato, prendendo velocità nella strada dritta e deserta. Lasciandosi tutto alle spalle. Allontanandosi. n
NUMERO /3
Anno 2004, n. 3
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