Un anonimo ragazzo, soprannominato Colino diventa il protagonista dei festeggiamenti a San Giovanni Battista, meritandosi oltre alla vittoria nella faticosa salita all’albero della cuccagna, un articolo di elogi sul periodico l’Aurora del 20.08.1907. “…Colino è presso la cima – scrive il cronista- però sembra stremato e sul punto di abbandonare l’impresa; guarda il cerchio e vede pendente sul suo capo il pantalone di saia inglese; attratto da quella calamita chiama a raccolta tutta la sua gagliardia, le gambe, la schiena, le braccia balzano e s’allungano….Colino afferra il cerchio del trionfo e lo scuote tra gli applausi della folla…guarda estatico e sorridendo al vestito nuovo e col volto raggiante fa la discesa trionfale per la conquista del sospirato indumento per la festa di San Giovanni al quale, per gratitudine, ha offerto un caciocavallo della cuccagna a mezzo del curato…“. Così in sintesi descrive l’accaduto il giornalista dell’epoca.
Ebbene, questa scalata e salto vertiginoso di Colino riportano alla mente, per analogia, alcuni concetti più volte ripresi da Raffaello Marchi.
Allontanarsi dal luogo d’origine, ergersi con una forte volontà verso un obiettivo altro, fare un salto di qualità e di conquista, di conoscenza e miglioramento delle proprie condizioni materiali o culturali, può avvenire senza escludere il rapporto diretto paese-universo, ma anzi rafforzandone gli equilibri senza sconvolgerli.
Il nostro misterioso Colino, ritornato tra i compaesani che lo incitavano o applaudivano, raffigura in effetti quella unità nella sardità che viene integrata e arricchita, dalla diversità e peculiarità di altri mondi escludendo “quote intermedie rappresentate dai sottoprodotti culturali e umani”. Colino ha volato come “in continente”, senza fermarsi a mezz’aria, senza quindi essere provinciale, ma legato al suo ambiente storico e sociale, ha dimostrato metaforicamente che quel macrocosmo dei grandi “centri” può essere riportato da noi senza perdere la propria identità, ma anzi sardizzandone i contenuti non solo apparentemente estranei.
L’universale nel particolare sembrerebbe una contraddizione ma invece è una caratteristica costante nella storia di Nuoro.
Il reale cordone ombelicale mai reciso tra paese-universo è a mio avviso, forse perché ci sono nato e vissuto, il Corso Garibaldi, sia perché ogni nuorese sente il richiamo quasi ancestrale al suo Corso, sia perché la vita oggi come ieri ha colà il suo centro. La dimostrazione di questo legame tra mondo esterno e tradizioni è data dalla descrizione del Corso Garibaldi, in occasione della festa di San Giovanni, sempre nel periodico “Aurora” del 1907, in un articolo dal titolo Guida Commerciale che vale la pena di pubblicare senza commenti:
“…Lampeducce e pennoncelli tricolori sospesi a fil di ferro sovrastanti al Corso in larghe file trasversali arieggiano un nembo di farfalle aleggianti per baciare la luce. E dal lembo del marciapiede ascendendo verso il centro della città illuminata a giorno sotto la pioggia d’oro variopinta fan bellamostra dai portoncini: a destra, nel palazzo Gottero,la bettola ogliastrina,nel piccolo negozio della Ghisau, la leggiadra signorina Secechi, a sinistra le graziose sorelle Sacchi,un nido di piccole colombe, e l’osteria Mundanu coll’amabile padroncina, dall’altro lato il rivenditore di vino e liquori Leonardo Succu; a sinistra la panetteria Fantoni, segretario del Comitato delle Feste. Nell’altro lato il negozio Bianchi ove regna la sua vezzosa e colta figliola, e nel palazzo del Cav. Plezza il continentale Paolino vende generi coloniali. Nella piazzetta del Ponte di Ferro sbuca il panificio,la fabbrica di paste e l’annesso negozio di Giovanni Antonio Musina e al marciapiede, dando le spalle a mezzogiorno, s’allacca il negozio di manifatture di Giovanneddu Lorisincu che guarda la gran via dal gomito ciclopico che mena alla Stazione.
Nel Largo del Palazzo Romagna a sinistra rigurgita di avventori lo spaccio di vini e liquori di Misina e Gaddaredda, e in capo alla piazza domina il negozio di Mariantonia Cocco giovine di belle forme e cortese. Ora a destra ora a mancina sono schierate le vetrine dei negozianti in manifatture Pinna e Sanna; della cancaglieria Serra, il negozio in coloniali della simpaticona signorina Ciccita Davide, valente ricamatrice, e della sentimentale signorina Solinas; del negozio in manifatture Zuddas, dell’orologeria Ravassi, della Calzoleria Tortorici, nel meccanico Merlini.
Eccoci in mezzo a due splendidi caffè: Musina e Deffenu, che si guardano in berniesco perché i rispettivi padroni sono ambedue grassocci e intraprendenti, uno più versato in pasticceria e l’altro in ferrame, entrambi amici dall’alba senza traslato.
La sartoria Deffenu coll’abile tagliatore Pancirolli Giuseppe dirimpetto allo splendido palazzo Bertini. L’orologeria Battista Zoppi, il negozio di manifatture Agostino Piras, di ferramenta e simili di Cerana e Ziu Barca, la bettola Conchedda,la pizzicheria Fantoni, il Bazar ved. Campanelli, il negozio di manifattura di Giovanni Mura Pisanu, la Bettola di Nicolina, la panetteria di Carlo Pastorini, la sartoria di Salvatore Virdis, la superba offelleria Fiori, il magazzino del milese, fruttaiolo e bettoliere, e finalmente il chiosco Tortorici rivenditore di carte bollate e tabacchi.