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I vecchi poteri, la nuova cultura
 
Ennio Flaiano, uno dei protagonisti più sagaci della vita intellettuale italiana del secondo Novecento, uomo che diffidava assai di ogni forma di opportunismo, di radicalità esibita e di seriosa autocelebrazione, nella sua Autobiografia del Blu di Prussia a un certo punto scrive: «Leggere è niente, il difficile è dimenticare ciò che si è letto».
Attivando il dispositivo dell’aforisma, egli non di rado esprimeva così tutta la sua insofferenza davanti all’irrefrenabile attivismo e arrivismo di quegli scrittori (più o meno militanti) che con la sicumera e la baldanza delle mosche cocchiere sparavano le loro inossidabili verità contro tutto e contro tutti.
Ancora Flaiano dal Diario degli errori: «Una volta credevo che il contrario di una verità fosse l’errore e il contrario di un errore fosse la verità.
Oggi una verità può avere per contrario un’altra verità, altrettanto valida, e un errore un altro errore».
Flaiano, devo essere sincero, mi sovviene ogniqualvolta in Sardegna si accende inopinatamente la miccia della polemica sterile e astratta. Ogniqualvolta qualche scrittore nostrano legittimato dalle “sacre” leggi del mercato (che a certuni piace solo quando conviene), con temerarietà dannunziana si autoproclama Vate della modernità e del successo, e rivendica il ruolo di nuova avanguardia dell’antagonismo isolano sulla strada dell’autodeterminazione del popolo sardo. Rimango basito.
Tutto il resto, infatti, sarebbe conservazione, conformismo, vecchiume, corruzione e disonestà intellettuale. Io rispondo: niente di più vecchio, niente di più conformistico, niente di più pericoloso di un’analisi riduttiva e semplicistica che non ha in sé il dono del discernimento e non porta un contributo concreto e responsabile alla discussione.
A chi giova questa semplificazione e questa generalizzazione? A chi giova sparare sul mucchio? I nostri maestri, molti di consolidata cultura umanistica (più di uno facente parte del tanto vituperato universo accademico), e qualche commentatore liberale, ci hanno insegnato che vis polemica e mentalità costruttiva non si elidono a vicenda, ma che al contrario possono coesistere a patto che la volontà distruttiva non prevalga, oscurandola, sulla volontà di comprensione e di giudizio applicata a persone, cose e situazioni.
Per altro si sa che la polemica distruttiva, per sua natura astratta e sterile, al confronto serio e costruttivo predilige l’intervento che sviluppa cortocircuiti, perché sa che dal black out (come dall’eccesso di rumore) si ridetermina il silenzio, il silenzio della ragione.
È una legge della tanto evocata comunicazione. Una legge di chi non sa o, peggio, non vuole comunicare. Mi chiedo, perché si agisce così? Sono sprovveduti? Solo in parte. I loro interventi hanno alcuni presupposti fallaci e un obiettivo più o meno palese. Forse è opportuno smascherarli. In primo luogo bisognerebbe parlare di personal marketing. È una pratica antica di autopromozione, molto usata dagli scrittori.
Consiste in una frenetica presenza sui giornali, nei dibattiti, nelle feste, in tutti i luoghi dove si può parlare e/o vendere un libro. I risultati, se si agisce con disciplina e costanza, non tardano a venire. Contemporaneamente si cresce in popolarità.
Fin qui niente di male. Capita però che in chi vende maturi progressivamente la convinzione di essere non solo bravo a promuoversi, ma anche di aver acquisito titoli per pontificare. Da venditore a Vate. Questo è il primo passo della patologia dello scrittore, che può non fermarsi qui, giacché un tempo evolveva verso il Padre della patria. Il riconoscimento però non è venuto e allora la strategia è divenuta politica.
Ma questa non è cultura, né marketing, è semplicemente un esercizio di prepotenza, garantita dalla protezione del nuovo Principe.
NUMERO /3
Anno 2004, n. 3
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