Ho visitato da poco un monumento incredibile: Gremmanu, in territorio di Fonni.
L’avevo già visto più volte. Poiché si trova a due passi dalla Nuoro Ogliastra, a qualche centinaio di metri dal bivio per Caravai, lo avevo notato appena avevano iniziato a scavarlo e mi ero avvicinato, da solo e con altri che mi piaceva accompagnare, ma, devo dire, senza coglierne l’importanza.
Poco tempo fa un fonnese gentilissimo mi ha accompagnato ai pozzi che qualche centinaio di metri più in alto fornivano l’acqua al santuario e mi ha mostrato un depliant dedicato dal comune di Fonni al monumento.
Nel depliant Gremmanu è raffigurato in pianta e con la veduta aerea (foto).
Dalla vista delle due immagini emerge chiarissima, inequivocabile la figura rappresentata dal monumento: un enorme fallo, raffigurato in modo quasi calligrafico, con un testicolo, l’asta e il glande col meato urinario.
Nel testicolo era, secondo gli scavatori, una fucina per bronzi votivi e dal meato urinario entravano i visitatori.
All’interno dell’asta edifici di varie forme, certamente a destinazione cultuale. Vedere rappresentato il fallo nella pianta di un monumento mi ha sorpreso, ma più per il sesso a cui appartiene l’organo sessuale che per il tema.
Da tempo, da una trentina d’anni, perlomeno, io sostengo infatti che le tombe dei giganti, le domus de janas e i pozzi sacri sono la riproduzione, simbolica ma accurata, dell’apparato sessuale femminile, per le argomentazioni che seguiranno tra breve. Se ho ragione, e ho ragione, la sacralità femminile è rappresentata in Sardegna innumerevoli volte.
La potenza generatrice maschile appare dappertutto nella cultura nuragica in forma di betili di dimensioni variabilissime, quasi accessori delle tombe e dei pozzi, quasi rappresentazioni di un dio minore. Vederla rappresentata in scala gigantesca, in un monumento che evidentemente ne spiega la funzione, al centro della Sardegna, sembra voler dire che i due elementi, il maschile e il femminile, erano adorati per lo meno allo stesso modo, sempre che il monumento non costituisca la prova di un passaggio culturale dal culto della Dea Madre all’affermazione della superiorità maschile. La cosa è troppo complessa per banalizzarla più di tanto.
Alla convinzione sul significato delle tombe e dei pozzi io arrivavo, comunque, da considerazioni di carattere linguistico che potevano convincere me più che gli altri, per cui avevo sempre qualche riserva e qualche incertezza nell’esternarla. Oggi, davanti al monumento di Gremmanu, non ho davvero più dubbi. Non c’è nessuna ragione logica per credere che i nuragici rappresentassero l’organo sessuale maschile nella pianta dei monumenti e non lo facessero con quello femminile. Va da sé che andrebbero riconsiderate anche le piante, e la funzione, degli stessi nuraghi.
Ecco le considerazioni linguistiche cui accennavo per i pozzi e le tombe.
La tomba utero e il pozzo sacro vulva della Dea Madre
Praticamente in tutta la Sardegna è diffusa l’espressione Ti faccio ritornare nel ventre di tua madre (dinci vazzo vuliai in su cunnu ’e sa mama dua, per dirla come i cagliaritani, che spesso la abbreviano e la fanno diventare un’esclamazione Cuddu cunnu!) che accomuna alle orecchie dei sardi attuali una fortissima volgarità con una accentuata violenza minacciosa e mi pare debba significare semplicemente ti uccido.
Questo vedere la morte come un ritorno nel grembo materno è così diffuso che non varrebbe la pena di parlarne se non fosse che nell’espressione sarda la particolare crudezza (Cunnu è la vulva, non l’utero) sembra indicare una azione concreta, reale o concretamente realizzabile.
Chi la pronuncia non pensa di usare un traslato e non c’è nella voce una benché minima sfumatura di scherzo, quasi che davvero si intenda attuare alla lettera ciò che si minaccia e non si stia usando un’iperbole. Su cunnu ’e sa mama dua sta concretamente per tomba.
Ciò ci riporta alla mente la forma delle domus de janas con stele scolpita, frequenti nel sassarese, che richiamano nell’esedra l’apparato sessuale esterno femminile e nella domus o nel corridoio tombale quello interno.
L’esedra delle domus, dove è quasi una piazzola a imbuto scavata nella roccia, corrisponde, in questo caso, all’arco delle cosce e la stele stessa trarrebbe da questa interpretazione un significato reale, coi suoi tre betilini sulla sommità, come una stilizzazione della peluria pubica.
I betili davanti alla tomba sono evidentemente membri maschili davanti alla vulva. Il fatto che siano spesso mammellati non è in contrasto con questa interpretazione: basti pensare al dio ermafrodita, itifallico e coi seni accentuati, che sta in grembo alla madre in alcuni bronzetti.
L’espressione linguistica che stiamo esaminando non sarebbe che la traduzione perfetta di una frase nuragica dove la tomba era la vulva della dea madre.
Lo stesso nome domus de janas inteso come abitazione di folletti, di una sorta di elfi, mi pare privo di significato. La donnola è in sardo sa janna ’e muru e il suo stesso aspetto potrebbe far pensare a uno spiritello (dando per scontato che Janna, in questo caso, non significa certamente porta, ma è da ricondurre a jana, a gonos greco, a ginè, alle radici gin e gon che universalmente indicano l’elemento femminile) per cui si può credere a un significato come lo spirito del muro, ma in sardo si chiama anna socra la suocera, annu socru il suocero, annonnu il padrino ed è più serio e più logico proporre per suoni simili significati simili.
La forma delle tombe è sostanzialmente la stessa di quella dei pozzi sacri, ma, mi pare, il corpo nei pozzi è rappresentato più nel suo dettaglio e sono scomparse le cosce. L’atrio del pozzo è il vestibolo della vulva, il cerchio esterno le grandi labbra, l’ingresso la vagina, il foro perpendicolare il meato urinario.
A Orani (mi consta anche per Sorgono, non so in altri luoghi) è tuttora usata l’espressione mi’ a mannai pisciande (guarda nonna che piscia): la si usa coi bambini ai quali è andato di traverso qualcosa che hanno bevuto in modo che alzino la testa e che gli passi la tosse. A Sorgono la frase ha come soggetto babbai, il nonno.
Oggi l’espressione è totalmente priva di significato e la si sta rapidamente abbandonando perché vista come irriguardosa nei confronti della figura della nonna, ma era in passato usata da persone serissime, dalle madri coi figli, dalla nonna coi nipoti, anche se nessuno sapeva spiegare perché era proprio la nonna a orinare in cielo e come mai si invitavano i bambini a guardarla o anche soltanto a immaginarla in quell’atto, in un’epoca nella quale la nudità degli adulti era un tabù fortissimo.
Non si può che tornare alla Dea Madre e ipotizzare che lei fosse secondo gli antichi sardi all’origine della pioggia. Mannai era mamma ed è poi diventata nonna, figure che probabilmente si identificavano, come babbai, che era certamente babbo, è diventato nonno a Sorgono.
L’associazione pozzi sacri - pioggia, negata dal Lanternari, a me pare evidente. I riti nel pozzo sacro servivano a fertilizzare la terra, anche causando la pioggia. Il sacerdote scendeva le scale del pozzo, raggiungeva l’acqua e la fertilizzava, probabilmente con qualche simulacro del dio, un fallo o un bronzetto.
È ancora diffusa tra i nostri pastori la convinzione che si possa causare la pioggia immergendo nell’acqua un teschio umano.
Quando si parla di processioni religiose per invocare la pioggia rivelatesi inutili, qualcuno sostiene spesso, in modo semischerzoso, che sarebbe un metodo efficacie immergere nell’acqua il sacerdote capovolto.
Il pozzo sacro
C’è un’altra espressione che può essere spiegata ritenendo il pozzo la vulva divina. In tutta la Sardegna per indicare che una minaccia è spropositata e del tutto vana si dice mind’intrat in culu.
Mi pare plausibile che l’espressione sia un ricordo dell’ingresso del sacerdote nel pozzo sacro per svolgervi i suoi riti, visti come estremamente ridicoli una volta che la cristianizzazione aveva rimosso la fede che li accompagnava. Il sacerdote entrava nel pozzo (quindi nel culo, ma in molti paesi l’espressione è proprio riferita a su cunnu, e anche gli uomini dicono mi c’intrat in su cunnu) nella vagina della Dea Madre, la possedeva e la fecondava.
Era il momento culminante del rito, come l’Ostensorio della nostra messa, momento atteso con trepidazione e fede. Tanto più grande era l’efficacia che gli si attribuiva allora, tanto più forte si dovette esercitare la polemica virulenta dei primi sacerdoti cristiani contro quel rito, tanto che il gesto del sacerdote è divenuto il simbolo stesso dell’impotenza ridicola e boriosa.
Ancora poco tempo fa si proibiva ai bambini di affacciarsi nei pozzi ca v’est sa tentascione (perché c’è la Tentazio-ne) e sembrerebbe in contrasto col culto delle acque diffusissimo tra i sardi questo ritenere il pozzo sede del Tentatore, se non fosse il ricordo dei divieti espressi dagli evangelizzatori o dal tabù che doveva circondare il pozzo sacro. Ovviamente ai bambini si proibisce ancora di affacciarsi nei pozzi, ma non per motivi religiosi.
È facile immaginare come, una volta smarrito il significato del gesto, potesse sembrare ridicola la pretesa del sacerdote di entrare tutto intero in una vagina. Era forse indirizzato ai sacerdoti pagani superstiti lo sberleffo che ancora oggi accompagna la frase: sbattersi le mani sulle natiche. Soprattutto le donne, e i bambini che le imitavano, rispondevano con quel gesto e con quella frase a minacce profferite da lontano, chinandosi in avanti e picchiandosi le natiche come a offrirle al tentativo.
Direttamente derivata da quest’espressione è l’altra mi nde pones su nasu in culu che diventa chiarissima: nel tentativo di entrare nel culo, l’avversario non può che rimanere scornato e l’unico risultato che possa sortire è introdurre il naso nell’ano. La canzoncina Serra serra, incomprensibile altrimenti, diventa trasparente: soriche mannu dind’intret in culu significa che il grande soriche, topo nel sardo attuale, sarà inoffensivo per il bambino che viene cullato, ma lo diventa ancora di più se si da’ credito a Sardella che propone per Soriches (toponimo diffusissimo in Sardegna e sempre in ambiente nuragico) il significato di sacerdote.
Ancora oggi il sacerdote viene indicato come soricone da qualcuno che non ne ha grande stima. La canzoncina ci riferirebbe formule di scongiuro tese a neutralizzare le maledizioni dei sacerdoti sconfessati che potevano essere efficaci sui bambini.
I ricordi delle sepolture
Altra espressione interessantissima è abbasciadi a pare che a Orani ha un significato violento e brutale. Se si è già detto a qualcuno di star seduto e non se ne è dato per inteso, dopo averglielo ripetuto, si finisce per apostrofarlo con la frase abbasciad’a pare nel significato da tutti inteso di crepa, significato reso ancora più evidente dell’aggiunta solita chei s’appa chi d’abbascese che tutti spiegano come un abbassarsi definitivo nella morte. In molti paesi a pare è scomparso ed è rimasto il semplice abbasciadi, abbassadi.
La stessa parola in tutta la Sardegna ha anche il significato di rannicchiato per defecare tanto che il cesso o, comunque, lo spazio all’aperto usato dalla comunità per i bisogni corporali era s’abbascia, s’abbassa, sa bascia, sa bassa. Alle persone particolarmente sboccate, che ripetevano troppo spesso la parola merda si replicava sa matha dind’abbascete (Che ti vada giù il ventrame) frase che collega il morire e il defecare. Il ventrame scende se il morto sta nella stessa posizione di chi defeca.
Mi viene da accostare a questa espressione la parola sarda accunnau che significa spento, svogliato, depresso. Il corrispondente semantico in italiano sarebbe sfigato, termine molto di moda ultimamente, ma con la variazione del significato che ho proposto. Una volta che ho chiesto il significato della parola a un mio compaesano, quegli mi ha risposto, ridendo: “Abbasciau a pare”, come se la parola significasse torrau a su cunnu, attu a cunnu. Per ritrovare una razionale spiegazione dello strano accostamento dobbiamo risalire alle forme di sepoltura prenuragiche e nuragiche, alle domus de janas e ai morti rannicchiati.
Un’altra forma di sepoltura è ricordata dall’espressione Corvu! e dalla sua inevitabile risposta Chi dinde tiret s’occiu!, ormai in disuso ma usatissima fino a non molto tempo fa, anche tra amici come scherzo scaramantico e a volte sostituita col verso dell’uccello che provocava la stessa, immancabile risposta (Che ti cavi gli occhi). È vero che l’espressione potrebbe riferirsi a persone decedute in campagna e ritrovate dopo giorni scarnificate dagli uccelli e dagli animali selvatici, ma, per quanto le morti in campagna potessero essere numerose, un ritrovamento tardivo dei cadaveri era certamente infrequente o non era tanto frequente da giustificare la persistenza della frase, che è invece comprensibilissima se riferita all’esposizione dei cadaveri per la scarnificazione rituale, prima della sepoltura secondaria delle ossa ravvivate con l’ocra e col sangue degli animali sacrificati.
Una necropoli a domus nel territorio di Orani sembra ricordare il rito nel suo stesso nome Nidu ’e corvu, in regione S’Adula, necropoli già indagata da Santoni nella sua tesi di laurea. Oggi il corvo non vi nidifica, ma era certamente un assiduo frequentatore del luogo quando davanti alle domus venivano esposti i cadaveri sopra i palchi. Il toponimo è diffusissimo (come niu ’e crobu o nella forma oranese) e sarebbe interessante verificare se ad esso sono sempre legate necropoli, come a Orani, a Loceri, a Quartu, a Sant’Antioco e altrove (pare che non ci sia paese dove il toponimo non sia presente). A Lanusei sopravvive nell’espressione rivolta in genere ai creditori A di la pagai in Niu ’e crobu con l’evidente significato che il pagamento del debito è rinviato all’altro mondo.
Ma Nidu ’e corbu, nelle sue varianti, è, più probabilmente, e più plausibilmente, la trasformazione della parola greca necropoli, nel suo significato originario, città dei morti, o cimitero. I sardi che non ricordavano, o non avevano mai saputo, il significato della parola dotta, una volta che il toponimo non designava più un luogo con funzioni funerarie, possono essere stati facilmente indotti ad adattarla a un significato trasparente. Necropoli diventa facilmente necrobu, nel parlato sardo, sopratutto nella variante campidanese, (per fare un esempio, la parola capra, che conserva il suono della p nella variante nuorese crapa, diventa craba in campidanese) e per un parlante campidanese necrobu non può avere altro significato che ni’ ’e crobu, nido di corvo.
Dall’area campidanese il toponimo non poteva non diffondersi in tutta la Sardegna, anche se è forse più esatto dire che in tutta la Sardegna si è diffusa la spiegazione, la traduzione in sardo di un toponimo presente dappertutto. Si tenga conto del fatto che necropoli è parola dotta e gli unici dotti in Sardegna, specialmente nei secoli che vanno dal tardo impero all’epoca giudicale, quando il toponimo appare nella sua forma attuale, erano i religiosi delle città, Cagliari e Tharros in primo luogo. La cristianizzazione della Sardegna centrale, o, per dire meglio, del novanta per cento della Sardegna, è sicuramente successiva alla lettera di Gregorio Magno a Ospitone e del grado di cultura del clero sardo le lettere di Gregorio sono buona testimonianza. A evangelizzare la Sardegna rurale, poi, non sono sicuramente andati i vescovi.
Accettando questa soluzione, la diffusione del toponimo, che apparirebbe altrimenti straordinaria, non ha più nulla di strano.
Una necropoli c’era sicuramente in ogni villaggio.