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Con gli occhi chiusi
 
Mi è già capitato di riflettere, proprio sulle pagine di questo giornale, sulla differenza tra la vita nella grande città e quella di provincia.
Da una parte la metropoli, quasi interminabile nella sua tentacolare estensione urbana, dall’altra la piccola città, che se vuoi oltrepassarne i confini puoi farlo anche senza togliere la macchina dal garage.
Da una parte Milano, capitale padana della produzione e del consumo, dall’altra Nuoro, nome di capoluogo dall’accento sbagliato. Il dilemma è sempre il solito: dove vivere meglio? Nel centro nevralgico del nord industrializzato, a un tiro di schioppo da Vienna, Parigi e Francoforte, o nel cuore della Barbagia, a due passi dal Nuraghe Mannu e dalle grotte di Ispinigoli?
Sulla bilancia dei pro e contro pesano a favore della grande città l’ampia disponibilità di scelta e di offerta lavorativa – concetti sempre più teorici in quest’epoca di profonda crisi economica, nonostante molti si ostinino ancora a puntare il dito contro la fannulloneria delle nuove generazioni –, lo scambio interculturale e il fruttuoso confronto tra genti di provenienza diversa.
Dalla parte del piccolo centro si schierano la maggiore respirabilità dell’aria, indice di un vivere più sano, la comodità di una comunità raccolta e presumibilmente più disponibile nei confronti dei singoli, ritmi di lavoro meno nevrotici – ma per il capitale non c’è provincia che tenga e l’intensificazione dello sfruttamento presto o tardi toccherà anche i confini dell’impero.
E va da sé che la bilancia è inevitabilmente tarata sull’età di chi si pone la domanda. Le argomentazioni che contano per un ventenne con una vita ancora da decidere non sono le stesse che possono motivare uno che ha il doppio e più dei suoi anni, e che certe convinzioni sulla vita le ha già maturate e si trova davanti a scelte di tutt’altro tipo.
Fin qui, tutte considerazioni in qualche modo banali, ovvie, che stanno davanti agli occhi di tutti coloro i quali si vogliano porre il problema. Ma una riflessione più interessante potrebbe invece riguardare la diversa percezione che ha l’individuo della propria esistenza all’interno dei due contesti. E sui due piatti della bilancia andrebbero allora posti altri elementi, di natura concreta ma con implicazioni assai profonde, e che qui si fa solo in tempo appena a sfiorare.
L’uomo ha costruito le città, e le ha costruite per farle durare. L’asfalto e il cemento, l’acciaio e il cristallo danno l’idea di materiali solidi, magari non indistruttibili ma comunque resistenti alla caducità del tempo. Eppure nelle strade si aprono crepe, i muri si sgretolano, i vetri si incrinano. I palazzi possono crollare, anche i più maestosi, cedere dalle fondamenta o venire sfondati da aeroplani. Le città possono essere bombardate e rase al suolo.
E si possono bombardare anche i monti, certo, ma con il solo risultato di scalfirli. E mai nessuno si sognerà di bombardare il mare o il cielo. Bene o male, saranno sempre lì, immutabili e silenziosi testimoni del passare del tempo e del disfarsi delle città. Vivere dove non si possono vedere il mare e il cielo è cosa diversa da stare a contatto con essi, e a cambiare non è poco: è la relazione dell’individuo con il resto del mondo e con il passare del tempo.
Le città sono state fatte per durare.
Questa è un’illusione necessaria a tutti coloro che le popolano: l’illusione che vivendo nella grande metropoli si sia testimoni di qualcosa di importante, o che qualcosa di importante possa sempre succedere da un momento all’altro, dietro ogni angolo, ad ogni nuova alba di sole pallido. L’illusione di eternità della metropoli investe di immortalità anche il suo abitante, catturato nell’ansia sfrenata di realizzazione, di raggiungimento degli obiettivi, spronato dal sogno di successo, dai cartelloni pubblicitari grandi come facciate dei palazzi e dalle nuove bevande dai colori sgargianti.Tutto è possibile. Tutto è a portata di mano. Così vicino che lo puoi appena sfiorare, e nella sfibrante tensione cui sei sottoposto la vita ti sfugge lentamente di mano, come sabbia tra le dita.
Il mare e il cielo ti dicono il contrario, e cioè che tu non sei fatto per durare. Se non per un brevissimo periodo di tempo all’interno di un vasto ciclo vitale che non conosce interruzioni. La città di dice che tu devi lasciare un segno, la risacca del mare lo cancella con un’onda, il vento lo soffia via. Il mare e il cielo sono sempre stati e saranno sempre, tu no.
Eppure, strano a dirsi, di fronte a queste porzioni sconfinate di eterno, l’individuo non si spaventa, non viene assalito dal terrore o da un comprensibile senso di spaesamento.
La consapevolezza della propria caducità porta con sé la considerazione che la vita è un bene prezioso in quanto unico, e ancora di più a causa della sua brevità, e che va semplicemente goduta.
La grande città fa di tutto per farti dimenticare che la vita manca di senso, il frastuono del traffico ti distoglie dal pensiero che tutto quello che oggi viene costruito un giorno sarà distrutto, ti fa correre veloce perché tu non abbia il tempo di realizzare che quella corsa è inutile se sei concentrato solo sul traguardo, sul luogo d’arrivo.
Perché non c’è nessun traguardo. Nessuno che ti aspetta con un trofeo in mano. Tanto varrebbe prendersela comoda, avere la facoltà di fermarsi ad ascoltare il silenzio e fare un passo indietro a raccogliere qualcosa che ti è caduto per strada.
E invece corri, corri e continui a correre, sempre più veloce, senza mai fermarti, senza guardarti indietro e senza guardarti intorno, con gli occhi chiusi.
NUMERO /2
Anno 2004, n. 2
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