Davi, che tutti ci ricordiamo per le sue brillanti esibizioni in show come”La grande notte del lunedì” o “Quelli che il calcio” ha scritto un libro dal titolo “Dì qualcosa di sinistra”, in cui consiglia al centrosinistra come battere Berlusconi puntando non sui contenuti o sulla critica al Cavaliere, ma basando tutto sull’immagine e sulla semplificazione del linguaggio.
Il titolo dice tutto: il richiamo all’esternazione morettiana di “Aprile” è soltanto allusivo, ma non per questo meno indicativo; se Moretti invitava D’Alema a dire qualcosa di sinistra, sottintendendo una critica all’eloquio eccessivamente moderato dell’attuale presidente DS, Davi vuole invitare a dire sì qualcosa di sinistra, ma in una chiave assolutamente diversa, attraverso parole non caratterizzate in senso ideologico, a favore di un parlare neutro che possa accontentare l’elettore progressista senza spaventare quello moderato.
La campagna elettorale per le elezioni regionali nella nostra regione mi pare sia largamente debitrice di questa visione.
Il linguaggio dei candidati delle due maggiori coalizioni (Renato Soru e Mauro Pili) si è manifestato secondo canoni decisamente omogenei, quasi che pensieri simili possano nascondere idee interscambiabili (si pensi solo al fatto che le candidature nel listino regionale hanno avuto sino alla fine un certo grado di permeabilità, con candidati tirati per la giacca da entrambe le due coalizioni maggiori).
Del resto, lo spazio della comunicazione mediatica è occupato dalla necessità di con-vincere, a discapito dei momenti di identificazione ideologica. Identificazione ideologica che conta sempre meno, visto che la competizione è egemonizzata dalla figura dei due leader, già impostisi come candidati in maniera autonoma e su iniziativa personale.
Personalità che ambiscono prima di tutto a presentarsi come il nuovo, cioè soggetti radicalmente diversi rispetto ai precedenti consiglieri delle legislature passate. Riproposta in maniera incessante, riappare generale la litania contro la vecchia classe politica, costituita da incapaci da mandare via (come scritto nei manifesti elettorali di un candidato cagliaritano).
Il Consiglio Regionale viene visto negativamente: la discussione, le decisioni approvate da ogni singolo membro appaiono un intralcio; meglio sintetizzare le aspirazioni del tutto (i sardi) nelle mani dell’uno (il governatore-taumaturgo).
La politica precedente viene vista come eccessivamente legata alle contingenze dell’oggi, priva di progettualità. Si promette, da parte dei due maggiori candidati, un progetto per un decennio; si vuole evitare ogni riferimento alla politica come gestione del potere, a favore degli interessi dei cittadini.
L’ampio ricorso del nuovo rimanda alla necessità tutta televisiva di presentare un prodotto diverso: una diversità non delineata, ma fumosa.
Circostanza paradossale, se si riflette sul fatto che buona parte del tempo di questa lunghissima campagna elettorale è stato occupato dalla snervante selezione dei candidati, riservando ai programmi la parte finale (per la precisione il mese di maggio, subito dopo la presentazione delle liste, dopo un’accurata, quanto chiusa e ristretta, estensione all’interno di limitate stanze). Lo spot elettorale è giocato sulla personalizzazione (Meglio Soru, Mauro Pili: la forza dei fatti); i soggetti politici fanno di tutto per non richiamarsi al nome di partito, preferendo identificarsi come lista o movimento.
Significativa è anche l’immagine che i candidati trasmettono, insieme al linguaggio.
Renato Soru costruisce la sua fortuna proprio grazie al suo modo d’esprimersi e alle sue pause: nessuna ricerca di immagini eleganti o ricercate, ma un linguaggio dimesso, pauperistico nella sua semplicità, come l’abbigliamento (con connotati etnici: il vellutino), quasi a contrastare la sua ricchezza personale. Anche Mauro Pili sceglie espressioni dirette, ma più costruite rispetto al suo avversario (giova la maggiore esperienza politica): anch’egli ricorre però all’abbigliamento semplice, sintesi tra l’etnico (anche lui il velluto) e il giovanilismo casual delle scarpe da tennis. Mario Floris punta su un’immagine più legata alla sua esperienza di amministratore, per contrastare la poca esperienza degli avversari; Giacomo Sanna vuole trasmettere l’immagine di un sardismo moderato e non avventurista, capace di proporsi come l’unico e vero depositario dell’interesse regionale rispetto ai due candidati del centrodestra e del centrosinistra, imposti da Roma e privi di reale autonomia.
Un altro candidato interessante dal punto di vista della rappresentazione mediatica è quello degli indipendentisti, Gavino Sale.
Il suo è un linguaggio impulsivo, diretto, privo di perifrasi, con un uso calcolato del dialetto a sottolineare la sua sardità, la sola e autentica, rispetto all’uso strumentale che ne fanno gli altri competitori alla carica di governatore. Questa immagine della Sardegna in chiave etnica, riproposta da tutti i candidati, è la vera novità di queste elezioni.
Significativamente, i partiti, tutti pronti nel liberarsi del peso della loro storia precedente, fanno a gara nel presentarsi come i veri conoscitori della nuova formula dell’Autonomia.
La Sardegna, richiamata già nel nome delle coalizioni (Sardegna Insieme, Sardegna Unita etc.) diventa la parola magica stimolatrice della propaganda. Spariscono i riferimenti alla tormentata vicenda nazionale (Pili richiama poche volte l’esperienza nazionale del governo di centrodestra, Soru non fa proprie nessuna delle battaglie nazionali dell’opposizione) e internazionale e ai condizionamenti che incidono in maniera decisiva sulle prospettive dell’economia e della società sarda.
La Sardegna viene presentata come un’entità astratta nel sistema-mondo, chiusa nelle sue specificità e nelle sue ricchezze. Il richiamo costante è ad una Sardegna che si fa da sé, che non vive di assistenzialismo: nessuno vuole aiutare la Sardegna, devono pensarci i sardi. I programmi si riempiono di temi neutri: ambiente, pace, lavoro, pari opportunità, temi condivisi che non necessitano grosse concessioni ideologiche, ripetuti in maniera ossessiva, attraverso specifici slogan. I candidati possono allora procedere per stereotipi. L’elemento etnico diventa caratterizzante: Soru apre la campagna al complesso archeologico di Losa, Pili mette sullo sfondo dei suoi manifesti l’immagine di un nuraghe.
In quest’ottica, l’ambiente diventa un caso emblematico di questa tendenza ad eliminare messaggi politici troppo caratterizzati.
L’ambiente è un valore sia per la destra che per la sinistra, ed è privo di contenuto ideologico: si parla di turismo, di coste da restituire alla loro bellezze, si riecheggia il grido dei primi giovanili entusiasmi sardisti di Gramsci che scriveva da liceale “buttiamo al mare i continentali”.
Stesso discorso per il lavoro: lo slogan più utilizzato è vogliamo dare lavoro ai sardi, proposizione neutra che evita di toccare temi legati a questioni fondamentali come la precarietà e la qualità del lavoro giovanile; in quest’ottica, le lotte per il lavoro non hanno carattere sociale, ma generazionale: più lavoro ai giovani.
Si parla di ricerca e conoscenza, di un ruolo più adeguato del mondo universitario sardo; si evita, però, di sottolineare come le università più importanti traggano la loro linfa dalla circolazione dei docenti, da altre regioni italiane ma anche da paesi stranieri. I problemi vengono sovente elencati, difficilmente si enumerano le possibili soluzioni; un tono eccessivamente didascalico potrebbe richiamare l’immagine del politico di professione.
Insomma, la Sardegna, anche a causa di una legge elettorale scandalosa, sembra inserirsi pienamente in quel processo di ridefinizione della e nella democrazia, in cui l’elemento che predomina è l’immagine fine a se stessa e la banalizzazione delle proposte politiche.