Il libro riflette il punto di vista degli abitanti del Sol Levante, così lontani da noi per lingua e cultura. Un punto di vista che interessa ovviamente i sardi che vogliono sapere come gli altri li guardano, oltre all’argomento, scritto in quattro lingue; cosa del tutto nuova nel panorama librario, visto che giapponese e inglese fronteggiano italiano e sardo.
Il sardo poi, messo alla pari con le altre tre lingue, assume in questo libro la dignità che gli compete, da autentica lingua romanza, reggendo al confronto con tutta la sua forza espressiva.
Pertanto l’originalità e la rarità di questo libro, con la sua inusuale impostazione, ne fanno davvero un unicum, un libro non solo da leggere, ma anche da collezionare.
Non credo però che questo sia il solo motivo che tocca le corde dei sardi.Credo piuttosto che a questo motivo di orgoglio si aggiunga anche la soddisfazione di essere un paese che, nonostante tutto, ha ancora mantenuto salda la sua identità attraverso l’architettura popolare, la vita quotidiana e le feste, come recita il sottotitolo di copertina.
Infatti, ciò che ha interessato l’équipe giapponese, giunta apposta dalla Hosei University di Tokyo, è la vita dei piccoli centri, l’architettura popolare connessa all’agricoltura e alla pastorizia. Vedere come vengono sfruttati gli spazi in pianura e in montagna, il diverso tipo di abitazioni, a seconda dell’attività di chi vi dimora, e lo stupore, direi quasi, per gli spazi che i lavoratori hanno a disposizione. Loro, che di spazio ne hanno molto poco rispetto al numero degli abitanti, non possono che meravigliarsi delle ampie case con lolla e dei grandi cortili degli agricoltori campidanesi o delle ricche costruzioni dei pastori barbaricini.Spazi per loro impossibili nell’espletare lo stesso tipo di attività.
Si avverte nel libro il rammarico per i centri storici dei paesi sardi che un po’ dovunque cambiano fisionomia con l’abbattimento, anziché la ristrutturazione delle vecchie case che connotavano il vecchio stile mediterraneo.
Questo fenomeno è avvenuto anche in Giappone molto tempo prima che in Sardegna. Tokyo, imitando lo stile delle città occidentali, è diventata una moderna metropoli dove troppo pochi sono i segni che la connotano come città dell’Estremo Oriente.
Forse perché memore di errori di questo tipo, che in realtà sono accaduti un po’ dovunque, l’équipe giapponese giunta in Sardegna ha subito fotografato il paese che cambia, sia come struttura abitativa, sia come modo di essere dell’agricoltore e del pastore odierno.
Tutto documentato, con rilievi tecnici delle abitazioni e con interviste agli abitanti. Per salvare, almeno in un libro, la Sardegna che cambia e che in certi casi non è più, visto che il libro fu pubblicato la prima volta a Tokyo nel 1993, in giapponese e inglese, diretto ovviamente ai giapponesi, a quelli che non sono interessati alla Sardegna patinata che appare nei depliant turistici. Quella, per intenderci, conosciuta in tutto il mondo per le sue belle immagini.
Quella Sardegna è stata tralasciata volutamente, per fare spazio a un’altra Sardegna che si mostra nella sua vita quotidiana, alla Sardegna più vera, insomma.
Per la stessa ragione sono stati presi in considerazione e attentamente studiati trenta novenari, ossia i santuari campestri dove il popolo ancora si raduna per nove giorni l’anno, non per fare sfilate in costume, ma con intenti devozionali e socializzanti.Nove giorni lontani dalla Tv, a ripristinare le vecchie consuetudini, trascorrendo parte della giornata in preghiera e dedicando il restante tempo ai sani divertimenti d’un tempo, animati dai tradizionali balli e canti sardi.
Questa è la faccia della Sardegna che i giapponesi vogliono conoscere. L’altra faccia, quella turistica, la conoscevano da tempo.