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LE PIETRE RACCONTANO:Meritano un monumento i nostri poeti dialettali?
 
Con ammirevole partecipazione, Massimo Pittau plaude all’opera di Salvatore Ruju, il quale ha tradotto la Bibbia in sardo nuorese (1).
Se il sardo è una lingua, è naturale ch’esso possa essere adoperato anche ai fini delle traduzioni: chi ama pensare e parlare prevalentemente in sardo, se amante della lettura sarà certamente indotto ad apprezzare una tale iniziativa.
In vista di quella stessa finalità, Costantino Congeddu (Cincinu) ha tradotto in sardo nuorese Il giorno del giudizio di Salvatore Satta; e c’è da augurarsi che, al più presto, il frutto di tanta encomiabile fatica possa essere editorialmente divulgato.
Queste traduzioni hanno senso proprio perché il sardo è una lingua. Se fosse un dialetto non avrebbe senso.
Provi il lettore a immaginare che venisse tradotto in dialetto siciliano I Malavoglia di Verga: sarebbe un non senso.
L’importante è, quando si traduce, che vengano per quanto possibile evitate certe forzature linguistiche, le quali di recente sono state definite espressione di un non meglio qualificato simil-sardo (2).
Cosa non facile, peraltro, perché l’inevitabile italianizzazione della parlata sarda, i cui inizi fortunatamente, sono riscontrabili solo in minima parte nella lingua adoperata letterariamente dai nostrani poeti dialettali e in dialetto, anche ottocenteschi, ha assunto nell’attualità vistose proporzioni, addirittura concretando un imbastardimento.
Il problema assume oggi, oltretutto, sfaccettature burocratiche, perché occorre in qualche modo (si spera in modo intelligente) dare una razionale interpretazione alla legge regionale 15 ottobre 1997, n. 26, la quale sembra voler favorire un improbabile bilinguismo. Il fatto, peraltro, è che un’unica lingua sarda non esiste; e voler creare una sorta di esperantica unificazione significherebbe dare adito a una poco intelligente arbitrarietà.
Esistono, in realtà, un numero considerevole di parlate sarde (una per ogni centro abitato) e ciascuna di esse, bella o brutta che sia, o appaia, rispetto alle tre auliche versioni (logudorese, nuorese, campidanese) ha il pieno diritto di sottrarsi a quella sorta di contaminazione forzata. Perché contaminazione è non solo quella esercitata dall’italiano sul sardo, bensì anche quella che una fantomatica lingua unificata sarda eserciterebbe sui singoli dialetti.
Io, per mio conto, non credo affatto all’esigenza del bilinguismo sardo-italiano, anche perché la lingua sarda ha esaurito nel primo Novecento il proprio repertorio di espressività, in coincidenza con lo storico declino dell’economia pastorale e contadina. Non vedo, insomma, quale vantaggio possa aversi dal premettere alle parole italiane, e più ancora inglesi (perché ormai anche l’italiano va corrompendosi) l’articolo della parlata sarda. Non vedo, in altri termini, che vantaggio culturale possa ricavarsi dal pronunciare o scrivere, ad esempio, sa fattispecie, s’ermeneutica, sa metempsicosi; ovvero su computer, sa e-mail.
Credo, invece, che vada valorizzata, a fini culturali, la classica parlata sarda, nell’unico modo possibile: mediante un’intelligente, mirata riproposta dei testi scaturiti dalla vena creativa di quei poeti dialettali e in dialetto ai quali ho poc’anzi accennato. Come si fa, nelle scuole, per il latino e per il greco.

A Nuoro, i poeti in questione non sono forse del tutto dimenticati (a parte i cultori specifici di quel genere letterario), ma purtroppo sembrano biasimevolmente relegati ai margini dell’intellettualità, riducendosi sempre più lo spazio, proporzionale al grado di ritenuta meritevolezza, che viene riservato alla cultura subalterna.
Contraddittoriamente però, perché se da un lato si predilige l’opera universale di Salvatore Satta, dall’altra si dimentica ch’essa è anche un’esaltazione della nominata cultura subalterna (3); intesa (quest’ultima) come un quid che vitalizza e ripropone nel modo più pregnante la provvidenziale dimensione microcosmica.
Quella stessa cultura che ha alimentato la quotidianità poetica dei nostri cantori dell’Ottocento e del primo Novecento. Nel campo della cultura, appunto, la definizione “subalterna” non ha infatti alcunché di negativamente riduttivo, ma semplicemente designa la dimensione microcosmica, qualitativa (non quantitativa), che ispira il messaggio dell’artista, del poeta, del letterato.
E il microcosmo nuorese è qualcosa di cui noi, nativi appunto del capoluogo barbaricino, amiamo giustamente compiacerci.

L’avere relegato ai margini della cultura (cioè nell’anticamera del dimenticatoio) i nostri poeti dialettali e in dialetto è un qualcosa di cui hanno responsabilità coloro che, avendone avuto la possibilità e l’opportunità, non hanno editorialmente riproposto libri come Antologia dei poeti dialettali nuoresi, di Gonario Pinna (l’unica riproduzione in copia anastatica risale al 1972) e come Versi del canonico Antonio Giuseppe Solinas, a cura di Diego Pasquale Mingioni (mai ristampato dopo la prima edizione del 1977).
Un elenco in ordine cronologico dei poeti dialettali può allora tornare qui utile: Nicola Daga, al secolo Nicolò Porcu Deiana (1833-1898); Salvatore Rubeddu (1847-1891); Giovanni Antonio Murru (1853-1890); Pasquale Dessanai (1868-1919); Antonio Giuseppe Solinas (1872-1903); Pietro Piga (1871-1960); Sebastiano Manconi (1866-1953); Franzischinu Satta (1919-2002).
Dei viventi, ovviamente, non va detto nulla in questa sede, dato il carattere evocativo dello scritto.
Vale peraltro la pena di notare, non senza un qualche rammarico, che Paola Pittalis, nella sua Storia, si limita alla menzione del solo Pasquale Dessanai, per di più ricordato solamente per avere “piega(to) il dialetto barbaricino a raffinate esperienze di traduzione di lingue moderne” (4).
Maggiore interesse alle relative problematiche mostra invece Giacomino Zirottu, il quale opportunamente ricorda i poeti nostrani non solo per l’impegno sociale, ma anche perché “seppero coraggiosamente rompere con la lunga tradizione linguistica della poesia sarda in logudorese, preferendo comporre nella variante nuorese. Una rottura che andava oltre la lingua e spezzava moduli consunti, anacronistici, residui di un’Arcadia superata dovunque tranne che in Sardegna” (5). Palese, in ciò, il riferimento alla poesia popolare, particolarmente a quella tipica delle caratteristiche “gare poetiche”.
Direi a questo proposito che Zirottu ha colto nel segno quando, appunto, ha individuato nei nostri poeti i veri padri di un’aulica parlata nuorese che, con essi, ha assunto la dignità letteraria e, perciò, le caratteristiche di una vera e propria lingua. Prima di allora, il nuorese era considerato semplicemente un dialetto, una sorta di anello di congiunzione tra il logudorese e il campidanese.
Dopo la “rottura con il logudorese” (fino ad allora considerato la sola lingua utilizzabile per le composizioni poetiche), scopriamo tutti, analizzando proprio le composizioni poetiche, che dalla parlata popolare i nostri cantori hanno sempre saputo trarre quanto di più autentico e incontaminato poteva affiorare da un “dialetto” di per sé incapace di sottrarsi alla contaminazione (6).
È quella, del resto, una regola che si ripete nella storia linguistica. La lingua è per sua natura un quid tendente alla contaminazione, proprio perché la sua funzione è quella di semplificare il veicolo della comunicazione.
Ma la purezza di essa non va perduta se, nel momento in cui è toccato il vertice della morfologia individuante, v’è chi a tale risultato si conforma nella creazione di quei componimenti letterari o poetici che, per il loro valore, verranno poi assunti come parametro di riscontro dell’originaria purezza linguistica.
Così è stato per tutte le lingue, così è anche per la lingua sarda in versione nuorese. Perché la lingua, in generale, non è solo frutto di creazione popolare, ma è il risultato della combinazione di questa con l’aulico linguaggio letterario.

Alla possibilità di effettiva attuazione del bilinguismo nuoce, peraltro, la circostanza che la lingua sarda non è stata mai adoperata – se non nei giorni nostri, quando ormai l’invasiva contaminazione dell’italiano era irreversibilmente avvenuta – per la scrittura in prosa (7).
In quella forma di scrittura, in generale, va intravisto l’insostituibile mezzo di affinamento della lingua, anche e soprattutto perché lo scrittore è naturalmente e professionalmente portato a comparare i propri mezzi espressivi con quelli di coloro che l’hanno preceduto, così sfrondando la parlata popolare di tutto ciò che a lui appare arbitrario e banale.
La scrittura in prosa, insomma, non è soltanto il mezzo di espressione che testimonia e documenta l’evoluzione linguistica, ma è anche lo strumento che più di ogni altro contribuisce a mantenere quanto più possibile intatta la purezza della lingua.
Sicché, quando essa manca del tutto, come nel caso della lingua sarda classica, la positiva, calibrata evoluzione subisce una battuta d’arresto, favorendo quella arbitraria involuzione cui ho fatto cenno in nota. In tal caso, si verifica una cristallizzazione della lingua poetica, cioè quella che è rimasta estranea all’involuzione, così come appunto è avvenuto per la parlata sarda.
Ecco allora spiegato perché tra la lingua dei nostri poeti e la parlata popolare (nella cui evoluzione o involuzione gioca un ruolo determinante l’influsso dell’italiano) si verifica quello hiatus che induce molti sprovveduti a considerare negativamente arcaica la lingua adoperata dai primi (cioè dai poeti); o se si vuole essere più benevoli, a considerarla come un mezzo espressivo non funzionale ad altro che alle composizioni poetiche.
Ora, non v’è dubbio che nell’evoluzione della lingua gioca un ruolo determinante la reciprocità dell’influsso tra la parlata popolare e il linguaggio letterario; ed è allora ben spiegabile che quando quest’ultimo è limitato alle composizioni poetiche (le quali in senso quantitativo hanno scarso peso per esercitare un decisivo influsso sulla prima, ossia sulla parlata popolare) la contaminazione per l’influsso della lingua prevalente (l’italiano, nel caso che ci occupa) segue un moto naturalmente accelerato, travalicante certamente i limiti temporali caratterizzanti il caso normale dell’evoluzione linguistica.
Ed è proprio questa la ragione che induce a ritenere che, ai giorni d’oggi (dato, appunto, il rilevante grado di contaminazione linguistica), non sembra esservi più spazio per un ragionevole bilinguismo “ufficiale”, pur restando ferma l’innegabile necessità culturale, finalizzata soprattutto ad approfondire gli aspetti sociologici della vita nella Sardegna di ieri, a studiare e codificare il linguaggio letterario, ossia quello adoperato come efficace mezzo di comunicazione, di trasmissione dei messaggi letterari, dei nostri poeti dialettali e in dialetto (8).

Pervenuti a questo punto dell’esposizione, giustamente potrebbe taluno domandarsi che relazione possa esserci tra un discorso che, tutto sommato, propende verso la linguistica, e la titolazione della rubrica (in cui lo scritto è inserito), evocante narrazioni di consistenza lapidea.
Il fatto è che le pietre cui il racconto viene fattualmente affidato non sono quelle semplicemente rinvenute allo stato naturale, bensì quelle che recano impressi, a seguito di modellatura o giustapposizione, quei segni narranti che di volta in volta, e a seconda dei punti di vista, legittimano la loro iscrizione nel catalogo della documentazione, ovvero in quello dell’arte (che pure ha indubbia funzione documentaria). Sicché è intuitivo che il titolo della rubrica, non dichiaratamente riferito a segni impressi nel passato, ben può essere utilizzato anche per rivolgere l’esortazione ad una futura, eseguenda imprimitura lapidea avente funzione documentaria per i posteri, con la speranza, peraltro, che possa avere anche un valore artistico.
Sembra assolutamente pertinente, allora, inserire proprio in questa rubrica l’invito a imprimere (chi di dovere) nei nostri graniti, giustapponendoli quanto occorre previa idonea collocazione, un quid (un monumento o una semplice stele) che documenti un avvenimento culturale finora rimasto privo di adeguata testimonianza evocativa.
Così, per tornare al tema originario, una volta constatato che un avvenimento culturale come quello della fioritura di poeti dialettali e in dialetto (tra questi ultimi anche Sebastiano Satta), i quali sono i veri custodi della classicità della lingua sarda in versione nuorese, è rimasto privo di documentazione lapidea idonea a risvegliare il ricordo, ecco che un appello a liberarsi dal torpore non appare certo fuori luogo e fuori tempo.

1) È apparso in libreria, nell’estate del 2003, un interessantissimo volume dal titolo Sa Bibbia Sacra che è la traduzione in sardo nuorese dell’intera Bibbia. Ne è autore lo scrittore SALVATORE RUJU, “un nuorese doc” – secondo la recensione di DOLORES TURCHI apparsa ne L’Ortobene del 31 agosto 2003 – il quale “conosce bene la lingua materna, una lingua che si presta ad essere scritta e letta con agilità”. Il libro (edito a Nuoro da Solinas, appunto nel 2003) si apre con la presentazione di OTTORINO ALBERTI e con la prefazione di MASSIMO PITTAU.
2) Così in una nota redazionale de L’Ortobene, nello stesso numero sopra citato.
3) Nel campo della critica letteraria, per una qualificazione di “subalternità” della cultura aleggiante nel sattiano Il Giorno del giudizio cfr. GIOVANNI PIRODDA, Letteratura italiana – Profilo storico dalle origini a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1997, pag. 213. Ma non vedrei, in questo pertinente rilievo, alcunché di valoristicamente riduttivo.
4) PAOLA PITTALIS, Storia della letteratura in Sardegna, Cagliari, Della Torre, 1998, pag. 90. Eppure, per la compiutezza di un’opera di pregevole fattura, sarebbe stato opportuno almeno un richiamo (esteso, peraltro, al già ricordato Pasquale Dessanai) a quella subalternità culturale di cui alla precedente nota.
5) GIACOMO ZIROTTU, Nuoro – Dal villaggio neolitico alla città del 900 (con Introduzione di MARIO CIUSA ROMAGNA), Nuoro, Solinas, 2003, pag. 177. Nell’intelligente osservazione di Zirottu vedrei implicita anche un’esortazione a tenere separate e distinte le singole parlate sarde, meritevoli di essere conservate e valorizzate per quello che sono.
6) I nuoresi di un tempo (per intenderci, quelli appartenenti “alla razza dei beffulanos”, ormai in via di estinzione) usavano distorcere i vocaboli della loro stessa parlata per compiaciuta spiritosaggine, creando così singolari, sorprendenti espressioni rimaste poi nel linguaggio popolare.
Ricorderei, tanto per concedere qualcosa alla esemplificazione, il caso del “pugno” (in senso pugilistico) che diventa cadassu (per via dell’affinità fonetica tra diretto e tiretto), oppure pappamuccu (che è una comica pronuncia caricaturale del vocabolo inglese uppercut); quello della “zucca” che, trasformata in recipiente idoneo ad essere riempito di vino, diventa carradeddu (di qui la “zucchina” che diventa carradeddeddu); quello dello “spellare” (nel senso di sottrarre a taluno, cioè a un pollo, il denaro mediante abili raggiri) che per via di una serie di arbitrari passaggi diventa pincionare (ispeddare, peddare, puddare, piccionare, pincionare).
Ma era caratteristica anche la tendenza alla semplificatoria contrazione di espressioni d’uso comune. Tipico il caso dell’invocazione propiziatoria cadamasta, partito da gai Deus m’assesta e passata per cadamassesta; ovvero quello dell’espressione iterinene, derivato da it’es(t) chi li nene. Sono questi, in definitiva, “modi di dire” che hanno finito per entrare a far parte del vocabolario comune. Il che, peraltro, non dovrebbe affatto scandalizzare, qualora si resti nei limiti dell’accettabile.
Diverso è il caso delle arbitrarietà eccessive, peraltro brutte, che la stessa parlata popolare finisce poi per espungere, dopo l’iniziale, esplosiva accettazione.
Tipica espressione è quella abbarra soave! (usata invece di abbarra chietu), oppure l’uso distorto del vocabolo isterria (che, nel significato originale, designa la premessa enunciativa di un componimento poetico, per di più finalizzata ad agevolare la rima), adoperato nell’espressione bell’isterria come equivalente dell’italiano “bella sciocchezza”.
Espressioni, queste, che per quanto ho potuto constatare vengono fortunatamente adoperate sempre meno.
Ciò che è decisamente brutto, infatti, non è per sua virtù duraturo.
7) V., sul punto, MATTEO PORRU, Breve storia della lingua sarda, Roma, Newton Compton, 1955 (in coedizione con Ed. Della Torre, Cagliari), pag. 57 s.
8) Su queste problematiche, con excursus storico sull’evoluzione delle lingue in generale, cfr. GEORGES MOUNIN, Storia della linguistica – Dalle origini al XX secolo, Milano, Feltrinelli, 1989.
NUMERO /2
Anno 2004, n. 2
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