Il fenomeno, che si potrebbe definire “centrifugo”, tende a diffondersi da ambiti vasti a settori sempre più ristretti, spingendo tutti via via lontano da un nucleo identificatorio di riconoscimento reciproco e di solidarietà, verso un “altrove” ancora sconosciuto o non definito, estraniante ed alienante, comunque sempre più chiuso intorno al singolo.
Le cause sono molteplici e complesse, abbondantemente analizzate dagli studiosi da diversi punti di vista, ma riconducibili a grandi linee a questo nostro sistema politico ed economico che oramaidà evidenti segni di sofferenza, se è già nella fase in cui, per paura, è costretto ad allontanare e disperdere le forze aggregate. Una spia del fenomeno centrifugo è rintracciabile nel crescente disinteresse verso l’impegno politico, soprattutto delle giovani generazioni (ma ora, a parte qualche nostalgia, qualche girotondo e qualche nuova speranza da riporre in un auspicabile “homo novus”, anche delle più vecchie), conseguenza della incapacità (o della non volontà?) al coinvolgimento intorno ad un centro.
I nostri governi, consapevolmente o inconsapevolmente, accentuano il fenomeno con una politica miope di temponamento dell’esigenza del momento (quando anche questa vi sia!), senza una visione globale delle conseguenze a lungo termine.
Non hanno e non riescono a recuperare autorevolezza, credibilità e seguito attraverso comportamenti etici irreprensibili e scelte o battaglie forti politicamente condivisibili.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: mancanza di riconoscimento in ideologie portanti, di partecipazione alla vita politica, di fiducia nelle istituzioni e di cinismo generalizzato nei confronti dei loro rappresentanti (senza stare a fare neanche tanti distinguo, perché -vox populi- “sono tutti dei gran magna magna”).
Sono concetti già noti e dibattuti, è vero, ma da tenere sempre presenti per le loro nefaste conseguenze sulla progressiva, costante perdita di democrazia.
È noto, infatti, come la mancanza di riconosciuta autorevolezza spinga per compensazione alla ricerca prima o poi del-l’autoritarismo, segno indiscutibile di perdita di democrazia e devitalizzazione del concetto di civiltà.
La fuga da un centro polarizzante le energie di molti in un “altrove” che raccoglie le forze momentanaeamente raggruppatesi determina una dispersione di forze che fa comodo al potere vigente ed è funzionale al mantenimento dello status quo, mantenimento che è però solo momentaneo e che pecca di assoluta incapacità di visione lungimirante. D’altronde che importa? Basta che in qualche modo le legislature si chiudano, gli affari si facciano e poi...qualche soluzione-tampone si troverà!
Il fenomeno è diffuso: non riguarda solo l’ambito politico, ma tutti i settori della vita sociale pubblica e privata. È in atto una perdita del senso del collettivo in favore di quello individuale che rende l’uomo sempre più solo di fronte alla sua vita, sia nelle vicende personali sia nelle battaglie per l’affermazione e la difesa dei propri diritti. Ciascuno, chiuso in se stesso, non vede, ma contemporaneamente è invisibile all’altro.
Questo atteggiamento si riflette in tutti i comportamenti, anche quelli minimi quotidiani, spie di modalità diffuse e profondamente radicate. L’invisibilità dell’“altro” si manifesta non soltanto nella oramai diffusa incapacità di ascolto, facilmente registrabile anche da tutti noi, (ma se ognuno parla chi ascolta? Prima o poi tutti abbiamo necessità d’essere ascoltati per qualcosa!
Bisogna allora sollevare sempre più in alto la voce per farsi sentire nell’indistinto rumore di fondo, fino a quando anche il grido non è più udibile e il dolore e persino la morte avvengono, come d’altronde già inizia a succedere anche qua, nella solitudine e nell’indifferenza generale), ma si registra soprattutto nell’indifferenza verso i diritti altrui negati (non ricordando, anche qui, che i diritti non salvaguardati ad alcuni, singoli o gruppi, ad esempio ai disoccupati, agli svantaggiati, agli immigrati, rappresentano una possibilità di minori garanzie per tutti; la dittatura della maggioranza tende a rendere invisibili le minoranze e le differenze, quindi omologa ed impoverisce il mondo).
L’indifferenza e la mancanza di solidarietà devono essere sentite come intollerabili.
Non possiamo non indignarci per la perdità dell’identità e del senso di appartenenza e del collettivo. Le conseguenze sono gravissime e riguardano molti di noi.
I bolletttini statistici ministeriali informano dell’aumento della povertà nel nostro paese (una delle maggiori potenze mondiali!). Secondo il rapporto Eurispes infatti la società italiana può dividersi in tre terzi: un terzo di benestanti, un terzo di poveri ed uno ad alto rischio di povertà (ceto medio). I nuclei familiari (quattro persone di media) che appartengono al terzo di poveri vivono (sopravvivono) con un reddito inferiore agli 823 euro al mese, ciò significa che con 850 si è già nel gruppo a rischio, ma non si è considerati poveri. Dunque oggi 10 milioni di italiani (il 20% della popolazione) mentre solo dieci anni fa nel 1994 i dati Istat fissavano a 2 milioni le famiglie sotto la soglia di povertà (in un periodo così breve mezzo milione in più!) e subito dopo la seconda guerra mondiale una commissione parlamentare (“Inchiesta sulla miseria in Italia 1951-’52”) fissò al 12% la popolazione che viveva in condizioni di miseria ed è noto in quali condizioni di povertà versasse all’epoca il nostro paese, mentre oggi siamo tra i più ricchi e vige anche il welfare!
Per quanto si vogliano leggere ed interpretare questi dati da ottiche differenti e secondo modalità molteplici, non si può non convenire quanto meno che la civiltà del benessere per alimentersi aumenta il numero della vittime che lascia sul campo, che la ripartizione del prodotto globale è evidentemente sempre a discapito di una quota crescente di nuovi poveri, che all’aumento innegabile del tenore di vita medio corrisponde un aumento della fascia povera che sta iniziando in modo preoccupante ad allargarsi al ceto piccolo borghese (È la prima volta che le generazioni dei padri non vedono prospettive migliorative per i loro figli, ma al contrario temono per il loro futuro che vedono a rischio, incerto e precario).
La miseria crescente, dicono gli esperti, è determinata da una parte da una economia debole incapace di far fronte a questo fenomeno e di trovare nuovo vigore riprogettandosi, dall’altra da una sempre maggior incapacità di coesione e di difesa forte dei propri diritti della parte povera.
Non avere speranza, sentirsi in un vicolo cieco, incapaci di far fronte ad una situazione di crescente disagio e povertà induce d’altronde ad atteggiamenti di rassegnazione, magari opportunismo individualistico, non certo di solidarietà e coesione. Anche di questo sono responsabili i nostri governanti.
Al sogno ideale di un mondo giusto ed equo attraverso il forse troppo utopico “sol dell’avvenire” hanno sostituito la speranza della ricchezza facile con il gioco in borsa, il rampantismo ottenuto con le improvvise quanto effimere ricchezze da new economy, la ruota della fortuna e i giochi a premi; così anche senza ideali e progetti di coesione comunque forse riescono a fare il pieno di voti ugualmente, magari proprio tra coloro che dovrebbero essere i più arrabbiati. Se poi questa ricchezza facile è più irraggiungibile dell’utopistico mondo giusto ed equo, non importa, si può sempre riprovare, tentare un’altra volta o con altri mezzi la fortuna che, si sa, aiuta gli audaci e non certo i lavoratori! Altro gioco altra corsa! I fratelli di ieri, uniti dai bisogni, o dagli intenti, sono i Grandi fratelli di oggi, costretti a stare insieme per competere senza esclusione di colpi per il premio finale!
Non importa se si sono perse per strada la dignità, l’orgoglio di appartenenza ad un gruppo (di partito, di lavoro, di classe), o se si è inferta una ferita profonda all’identità di intere generazioni, che, sbalzate fuori dalla storia dopo aver creduto di esserne state il centro per le lotte fatte, si sentono oramai disgregate, insignificanti e invisibili.
È un problema che non si vuole analizzare. Si accetta il disimpegno di percentuali sempre maggiori di persone come naturale, fisiologico al sistema. Si lascia che altri operino al nostro posto, perché, impotenti, riteniamo inutile qualunque azione.
Nella migliore delle ipotesi, cioé quando si sia liberi dal bisogno, la frustrazione e l’insoddisfazione derivanti producono solo (?) sfiducia, disinteresse e allontanamento; altrimenti, quando per necessità si dipende in modo vitale dalle decisioni e dalle scelte altrui e si è costretti ad atteggiamenti subalterni e servili, si accumula insieme all’indifferenza e al distacco dalla vita politica anche un senso sempre più rabbioso di pessimismo, risentimento e rancore.
Le relazioni fra le persone diventano provvisorie e inconsistenti, basate più su calcoli di convenienza ed interesse che su “simpatie” (uso il termine in senso etimologico di condivisione di “pathos”) e comunione di idee ed intenti.
La distanza e la lacerazione tra individuo e realtà costringono a rifugiarsi in zone strutturate e ben controllate, di presunta sicurezza, dove far vivere l’illusione che la vita sia tutto sommato anche quella, inautentica ed inessenziale, vissuta individualmente, con maschere di cartapesta da indossare secondo l’occasione e l’obiettivo da raggiungere.
La centrifuga del sistema ha operato bene: tutti lontano dal centro aggregante e, ben strizzati, rigorosamente inoffensivi ai bordi. Ma per quanto ancora?