Caro Dino,
nella mia “cattività ambrosiana” mi capita spesso di dover stare per molto tempo a letto, a leggere, o, come ora, a scrivere a un amico.
Era un’abitudine di cui avevo un po’ perso il sapore, il gusto della riflessione, dell’attesa del confronto. Conversare per lettera – con te innanzi tutto – è un piacere che mi sono negato un po’ troppo a lungo; ora ho modo di rimediare. Voglio condividere con te alcune osservazioni su un argomento che, quando ci vedremo, ci appassionerà qualche serata: parlo di Renato Soru e della sua candidatura, e delle reazioni che ha suscitato, comprensibilmente, tra i suoi alleati più e prima che tra gli avversari.
Credo concorderai sul fatto che esistano, scorgo, almeno due livelli di analisi e di comprensione di questo fenomeno politico affatto nuovo.v Il primo che vede la figura di Renato Soru filtrata dalle vecchie lenti appannate della retorica e della dietrologia – e sono le lenti montate dai tanti commentatori che ci deliziano dalle pagine de «La Nuova» o de «L’Unione». Il secondo livello, invece e manco a dirlo, è quello che ti propongo oggi. Ma partiamo con le cose che sono state dette dagli arguti giornalisti, o dai politici sardi.
L’autocandidatura di Soru è stata accolta inizialmente dal fuoco di sbarramento di chi rimproverava all’operazione la discendenza diretta dal modus operandi creato da Berlusconi, che alimenta il consenso attorno ad un mix di immagine e di soldi. Si è detto che il proporsi direttamente all’elettorato, scavalcando il “percorso democratico” garantito dall’investitura dei partiti, avrebbe proseguito la direzione peronista e populista inaugurata dal nostro attuale Presidente del Consiglio.
Si è detto e scritto che l’utilizzo dei mass media e dei loro meccanismi coercitivi andava in rotta di collisione con la cultura democratica del dialogo, del confronto, dell’interlocuzione con il “popolo sovrano”.
Si è detto in pratica, soprattutto dalla sinistra di sponda post comunista, che i partiti erano il solo passaggio democratico per l’elezione alle istituzioni e che ogni scorciatoia avrebbe minato l’impianto costituzionale e culturale della nostra democrazia.
Quanta retorica in questa difesa a spada tratta dei partiti! Come se decenni di burocratizzazione, di affarismo, di carrierismo, di assenza di elaborazione, di corruzione derivassero da qualche lontana cronaca marziana e non fossero vita comune delle sezioni, dei comitati, delle direzioni, delle segreterie, dei sottoboschi crescenti e pascenti all’ombra di ogni assessorato, senza alcuna distinzione di provenienza ideologica, di colore, di appartenenza, di fedeltà.
Si è riproposta, nelle parole di molti critici dell’operazione di Soru, la solita reazione già vista tante altre volte: di fronte all’accusa ai partiti di essere lontani dalle esigenze, dai linguaggi, dalle aspirazioni dei cittadini, si ritorce l’argomento contro chi lo propone, accusandolo a sua volta di tentazioni antipolitiche, demagogiche, antidemocratiche.
Che i cittadini reali non siano quelli che questi signori hanno in testa – o hanno letto nei sacri testi – ma che siano le persone vive e vegete che hanno votato in massa Berlusconi a suo tempo e che in Sardegna, con buona probabilità, voterebbero Soru, è un dato di fatto ininfluente: la democrazia prescinde dal Demos, finendo, nella testa di questi signori, con l’identificarsi esclusivamente con il Kratos, coi suoi meccanismi e con i suoi vantaggi.
Il problema dell’accesso alle istituzioni, le mediazioni del sistema dei mezzi di comunicazione, il potere garantito dall’utilizzo di fortune personali sono questioni vecchie di secoli, comuni a tutte le democrazie storiche. Non è un reato discuterne anche in quest’occasione; certo pensare di risolverla riproponendo oggi come ieri il ruolo sacro dei partiti come unici legittimati a confermare la democraticità delle istanze e delle candidature provenienti dalla società, mi pare un modo bizzarro e ipocrita di porre la questione. Con questi argomenti non si discute, ma si fa, appunto, tutt’al più fuoco di sbarramento.
Che fosse un atteggiamento destinato al fallimento si è capito subito, sia per il grande consenso manifestatosi verso Soru da parte di moltissimi sardi, tra i quali spiccavano proprio quelli che in genere non si appassionano affatto alla politica, quand’anche vadano a votare (giovani, persone di basso reddito, donne), sia perché le spinte provenienti dai leaders nazionali andavano nel segno opposto, quello favorevole alla candidatura di chi aveva le migliori possibilità di portare il Centro Sinistra alla vittoria.
È nota, comunque, la capacità dei leaders locali di quegli stessi partiti di costruire con fantasia e pazienza le complicate impalcature delle proprie sconfitte, operazione cui hanno iniziato ad adoperarsi con zelo fin dal momento in cui ne hanno compreso l’urgenza, ossia da quando hanno capito che avrebbero potuto davvero vincere le prossime elezioni regionali, per quanto di tale eventualità non portassero responsabilità alcuna.
Ecco allora che abbiamo visto nascere i distinguo, i percorsi tortuosi con i quali rendere accettabile alla miriade di poteri e di ambizioni interne i necessari passi indietro da farsi pur di accogliere s’istranzu Soru al ruolo più prestigioso.
Si è così parlato dell’importanza della “collegialità” in politica, categoria usata quando qualcuno si rompe i coglioni di scoprire dai giornali cosa ha deciso qualche suo alleato (vedi querelle Fini–Tremonti) e impone la propria forza per contribuire pesantemente alle successive decisioni.
Si è cercato insomma di compensare il “cesarismo” soriano con l’alta scuola dei compromessi garantita dall’esperienza degli ex comunisti, socialisti e democristiani e da quella sempreverde degli attuali sardisti. Si è infine giunti a imbastire un simulacro di primarie, con tanto di sparring partner nelle vesti di uno dei più autorevoli (e presentabili) ex democristiani di esportazione, soriano anch’egli, per quanto solo di nome, pur se inizialmente era parso anche di fatto (1).
Il tentativo era palese: Soru sarebbe comunque arrivato alla candidatura ufficiale da parte di tutta la coalizione (anche Tafazzi non usa mazzette da muratore, ma bottiglie vuote di acqua Panna!): l’importante era sminuirne la carica “sovversiva”, limitarne il potere, confinarne l’importanza entro ruoli accettabili e compatibili con la capacità di interdizione che le forze politiche e i potentati personali presenti nel Centro Sinistra dovevano garantirsi.
Insomma, era già pronta una “splendida” vittoria alle primarie di Renato Soru con il 51% dei voti, magari tutti concentrati nell’Iglesiente e a Cagliari, con la conseguenza di consegnare alla coalizione un re travicello d’immagine e lasciare agli altri la conta e la scelta degli assessori.
Poiché però anche le ingegnose trappole vanno costruite con sagacia – merce rara nei piani alti delle segreterie politiche – ecco che DS e Margherita trovano modo di dividersi sulle classiche “scorrettezze procedurali”, gli incontri segreti di Soru con esponenti diessini, e gli amici di Soro ritirano candidato (e squadra?) dalla contesa. Forse Soro avrà voluto alzare il prezzo? Saranno stati quelli della Margherita ad aver capito che far perdere il proprio cavallo di migliore razza in una primaria da burletta non vale la candela?
Saranno interessati ad un’alleanza centrista che scombini i poli? Nell’accordo preliminare aveva un’importanza fondamentale la riforma elettorale che DS e FI hanno fatto fallire? Chi lo sa, caro Dino? E soprattutto, lo scoprirlo prima degli altri ci darà il senso di una politica, o, a questo fine, ogni possibile risposta non fa che confermare la pochezza e l’inettitudine di una classe politica al governo di questa fase? v Questa la cronaca aggiornata alle ultime notizie giuntemi fin quassù; immagino che le ricche pagine di politica regionale dei nostri quotidiani aggiungeranno ulteriori particolari e interessanti ipotesi sul comportamento di questo e di quello.
Del teatrino della politica (cito il nostro Presidente) a me interessa ben poco.
Mi interessa di più scriverti sulle ragioni per cui considero l’ingresso in politica di Soru un’ottima notizia per tutti i sardi. Quando Renato Soru fondò la sua società che sarebbe diventata l’Internet provider più importante d’Europa, decise di chiamarla con il nome di uno sperduto villaggio nuragico nascosto tra le rocce della Barbagia.
Si dice che fosse l’ultimo rifugio dei sardi sfuggiti alla sconfitta da parte dei Romani, scampati ai loro cani e alle loro lance, rintanati nel cuore della loro terra, nel posto che reputavano più sicuro, chiamato Tiscali.
Avrebbe potuto usare un nome più evocativo del prodotto offerto (del tipo “FastWeb” o “ExtraNet”); ha invece scelto di giocare una scommessa pericolosa puntando su un nome misterioso e chiuso (il contrario dell’iconografia internettiana) che lo rappresentasse e che potesse identificarsi con un servizio internazionale e di alta tecnologia.
La ragione della sua scelta non è un mistero: l’ha rivelata più volte a chi glielo chiedeva. Riteneva che solo grazie a ciò che si possiede di più autentico e profondo sia possibile uscire per il mondo a proporre le proprie idee; che non si può fingere di essere altri da sé quando si vende qualcosa di proprio; che la sardità non è necessariamente un ostacolo, ma può essere un patrimonio, che si aggiunge e caratterizza la personalità degli individui. (Non senti riecheggiare qualche nostro discorso di certo tempo fa?).
Nelle interviste rilasciate nei giorni successivi alla sua candidatura, Soru ha esposto in termini più politici questa sua intuizione commerciale, con modi e termini evocativi che possono aver infastidito orecchie abituate alle consuetudini demagogiche dei candidati professionisti.
Molte delle persone – anche di grande intelligenza – con cui ho scambiato opinioni circa l’attenzione posta da Soru sulla questione dell’identità culturale l’hanno ritenuta un escamotage per evitare di scoprire le prematuramente le proprie carte su argomenti più scottanti. È un’opinione validissima, e che forse ha buona parte di ragione, ma che non mi convince del tutto.
Io vedo nel taglio dato da Soru alla questione dell’identità un aspetto tutt’affatto distante dalla logica identitaria storica portata avanti dai sardisti, in cui l’accento si pone sulla differenza tra la cultura e le esigenze dei popoli, e finanche dal vago nazionalitarismo di marca centrista, che a me pare finora aver solo coperto manovre politiche isolane piuttosto eterodosse quando non in aperto contrasto con le logiche romane.
La Sardegna di Soru non pronuncia le differenze rispetto al resto dell’Italia e del mondo, non professa incomunicabilità, anzi: afferma che la sola possibilità di comunicare sia data dall’accettazione e dalla proposizione delle peculiarità di ciascuno, prive delle quali ogni affermazione è senza radici, sospesa in un’ incultura che ne tradisce la povertà ed il provincialismo. E le conseguenze, anche in termini pratici, non sono da poco: la Sardegna del futuro visto da Soru sarà natura, non solo turismo; sarà cultura, non solo tradizione.
Quanta distanza da chi si riempie la bocca del recupero dell’identità, quasi che fosse un tesoro nascosto nel passato e non una dimensione storica che va vissuta in ciascun presente e in ciascun frammento del territorio, nelle periferie urbane meridionali di Cagliari come nella piazza di Lula – non a caso ho scelto due luoghi estremamente sardi ed estremamente degradati.
Non a caso perché una cultura e un’identità non sono immutabili e non sono date per sempre: possono scomparire, inghiottite da altre più potenti, possono perdersi e deteriorarsi nella caricatura di se stesse, ridursi a folklore, vivere nelle false memorie di intellettuali prezzolati, sclerotizzarsi in una burocrazia aggiuntiva, chiudersi in una riserva assistita.Tutte ipotesi del tutto probabili per la cultura e l’identità sarde, se lasciate ad essere gestite ad una classe politica incolta e rozza.
Abbiamo già visto la gestione della politica dei parchi, l’utilizzo clientelare della forestazione, la legge sulla lingua sarda, l’istituzione de Sa Die de sa Sardigna, il finanziamento privo di controlli per qualunque operazione culturale anche di infima specie che facesse riferimento alla Sardegna, i fondi destinati all’acquisto di libri che avessero Sardegna nel titolo. Abbiamo visto tutto questo e nessuno di noi due crede che perseguendo questa strada di falsa tutela la cultura sarda possa salvarsi dalle ipotesi che avanzavo prima (l’elenco non era esaustivo, naturalmente).
La strada – che mi pare Soru abbia in mente – è quella dell’abbandono di qualunque logica “recuperista” o comunque “passatista”.
Niente sguardo rivolto all’indietro, ai bei tempi andati, alla verità che si trovi solo incastonata nelle rocce del passato come un fossile. Ed è quella della rinuncia a qualunque idea che la soluzione dei problemi sardi passi necessariamente attraverso l’assistenza.
Cosa ci hanno dato decenni di trasferimenti pubblici sotto forma dei finanziamenti europei giustificati dall’appartenenza della nostra regione all’Obiettivo 1 dell’Unione Europea? Una burocrazia regionale strapagata e inefficiente, un sottobosco di enti strumentali deficitari e ben poco incisivi nei propri settori, un florilegio di enti di formazione professionale tesi unicamente a garantire gli stipendi ai propri docenti e ad accumulare patrimoni immobiliari.
Abbiamo drogato settori quali quello lattiero caseario fino a creare le tensioni sui prezzi che sono sotto i nostri occhi. Davvero una salutare ventata di liberismo – nel senso minimo della fine del-l’assistenzialismo – dovrebbe costituire un pericolo? Non sarebbe l’occasione per liberare energie finora bloccate dalle promesse e dai ricatti? Non voglio darti l’impressione di un entusiasta fulminato sulla via di Damasco, ma certo non cogliere le occasioni che alla politica può dare un imprenditore culturale sinceramente innamorato della sua terra, intelligente e capace, coraggioso e buon team manager, ricco di suo, a me pare uno spreco indegno, soprattutto in un momento come l’attuale che non vede esattamente nascere leaders politici credibili ad ogni macchia di cisto.
Credo che valga la pena andare a vedere come queste premesse si concretano sui temi quotidiani che un governo locale deve affrontare (sanità, lavoro, miglioramento dell’amministrazione, …), ma forse questa posizione non è sufficiente.
Forse, caro Dino, è il caso di dimostrare da subito, preliminarmente ai maneggi di partito e ai compromessi necessari a ogni nascita d’esecutivo, l’adesione ad un progetto per quello che è oggi e oggi si dimostra nelle parole evocative e innovative che ti ho malamente riassunto qualche riga fa.
Forse è necessario dire che a quel progetto, a quell’idea problematica di identità ( di un’identità mai data per scontata, ma da costruire nel presente, mai chiusa nel ricordo, mai imbalsamata) noi intendiamo partecipare, magari contribuendo ad aggiungere significati ai significanti usati da Soru, a suggerire modalità attraverso le quali le suggestioni possano diventare interpretazioni politiche delle realtà che viviamo, dei luoghi in cui lavoriamo, dei settori che conosciamo.
Forse, caro Dino, è arrivata una stagione in cui un impegno di tipo civico, direi, si rende quasi doveroso, ad evitare di vedere soffocata un’occasione di riforma del nostro sistema politico ed economico e culturale da parte di un conservatorismo incolto che corriamo il serio rischio, tra qualche mese, di vederci vincente alle elezioni.
Giampiero
1) In occasione della presentazione della autocandidatura di Renato Soru, nell’Agosto scorso, Antonello Soro aveva pubblicato una lettera nella quale appoggiava apertamente l’operazione, salutandola come un salutare elemento di novità e quant’altro la ragion di partito lo spingeva a dire in quell’occasione.
Evidentemente qualcosa deve essere successo all’interno dei Popolari sardi se dopo qualche mese lo stesso Soro rintraccia in quella lettera – visto allora da tutti come un via libera a Soru – i germi della propria opposizione personale alla candidatura del patron di Tiscali.