Certo che anche nel 2004 non siamo messi bene. La campagna elettorale che si prospetta in Sardegna è partita malissimo, poiché entrambi gli schieramenti si presenteranno ai nastri di partenza già sfibrati e affaticati non soltanto dai normali giochi pre-elettorali, ma da mesi di dure e aspre lotte intestine. Dal 1994 ad oggi sono passati dieci anni: due legislazioni inutili, per usare il titolo di un vecchio articolo di Pietro Nenni. Novità tante, confusione immensa.
Il centro-sinistra sembrava avere le carte in regola per porsi come alternativa al centro-destra dopo la legislatura non certo felice in via di scadenza.
Nel luglio scorso veniva organizzata a Cagliari una grande manifestazione di tutti i partiti dell’Ulivo, compresi i sardisti. Bandiere che sventolavano gagliardamente, gioiosi cori di giubilo, voglia di farsi vedere e di vincere le elezioni. I manifesti parlavano di “convenzione del 18 luglio” (e non era ancora scoppiata la “kerrymania”!); insomma, sembrava che fra partiti e movimenti si fosse creata quell’atmosfera in grado di creare una coalizione seria con un programma vero.
Ma ecco che il dott. Soru fa pubblicare dai due più diffusi quotidiani isolani due lettere in cui annuncia la sua formale candidatura alla presidenza della Regione. Ed è il panico: incomincia una lunga battaglia tra il candidato senza partito che vuole cambiare la Sardegna (che si pone oltre i partiti ma che ha l’avallo dei gruppi dirigenti romani, oltre che l’appoggio più o meno velato di alcuni importanti dirigenti di quei partiti tanto stigmatizzati e di ex-dirigenti ora neomovimentisti), e i vecchi partiti.
La candidatura di Soru, da subito, è apparsa come una proposta marcatamente estranea ai partiti (non a questo o quel partito, ma al sistema dei partiti nel suo complesso), anzi implicitamente nata in polemica con il monopolio dei partiti sulla politica. Se è vero che la sostanziale incapacità delle forze presenti in Consiglio Regionale di proiettare all’esterno l’immagine di un classe politica capace di affrontare con orgoglio e impegno le sfide che la nostra isola affronta in questo difficile nuovo secolo, necessitava una riflessione seria sulle modalità attraverso cui si esprime la domanda politica nella nostra isola, ora assistiamo ad un cambiamento che provoca qualche turbamento: mentre i grandi leader vengono scelti, nella stragrande maggioranza dei paesi dell’Unione Europea con un sistema elettorale maggioritario, dagli iscritti e dai simpatizzanti del partito al quale appartengono, dai quali ricevono una delega che li porterà a guidare il partito stesso in una competizione elettorale (ma accade un processo simile anche negli Stati Uniti, dove le primarie si svolgono rigorosamente tra candidati iscritti e aventi un discreto cursus honorum come governatori, senatori o deputati, perché il popolo americano diffida di chi non ha nel suo passato esperienze di amministrazione diretta), noi ci troviamo con leader che si creano propri partiti, fondati sul mito del capo.
Sono soggetti politici in cui il concetto di democrazia interna è molto labile, in quanto difficilmente vi si svolgono congressi, o gli iscritti e i simpatizzanti si aggregano e disaggregano sulla base di tesi ben delineate. vSi fondano così quelli che la scienza politica cataloga come partiti personali. Approfittando della “modernità liquida” che domina questa società post-moderna, così come l’ha definita il grande sociologo Zygmunt Bauman, cioè l’atteggiamento di rifiuto netto di principi di identità coesiva a favore di scelte prese sulla base di condizioni tattiche e quindi mutevoli, che rifiutano l’assunzioni di posizioni inflessibili, il candidato fondatore del partito personale si presenta e vince come persona, e di conseguenza eserciterà il suo mandato non avendo come punto di riferimento il partito o la coalizione di partiti che eventualmente lo avranno sostenuto in campagna elettorale, ma soltanto la sua figura e il rapporto diretto con i suoi elettori.
Per questo può volontariamente lasciare in sospeso anche la più elementare, e basilare, distinzione presente in politica: cioè dire chiaramente, senza ammiccamenti o sottointesi, se ritiene di essere di destra o di sinistra. Prima che le sue idee politiche, conta il suo potere patrimoniale. Raggiunto il governo, difficilmente accetterà di legarsi ai ritmi e alle logiche della mediazione del sistema pubblico, manifestando una grande insofferenza verso il “teatrino della politica” che egli vivrà come zavorra ingombrante al suo progetto di cambiamento rivoluzionario della società.
Il leader del partito personale colma infatti un vuoto di rappresentanza, e nessuno si chiede come mai non abbia mai sentito la necessità di interessarsi alla cosa pubblica negli anni precedenti. Non conta sapere se ha votato in passato per partiti conservatori o progressisti, perché interessano i suoi successi in campo economico e la sua capacità di vincere nella politica fatta attraverso i sondaggi.
Bisogna ricordare, però, che questi soggetti politici, una volta ritirato il loro leader, svaniscono immancabilmente (vedi caso Lauro in Italia, o caso Tapie in Francia, o ancora il recente caso Grauso proprio in Sardegna), perché non sono destinati ad incidere nel lungo periodo (e quindi a produrre cambiamenti determinanti nella società).
Il centro-sinistra sardo sembra avere imboccato questa via, anche perché oppresso dall’incapacità dei suoi referenti nazionali di impostare una politica che il giorno dopo non venga già definita “poco riformista” o legata strenuamente alla alchimie elettorali. In più, troppo facilmente reputa perdente la coalizione avversaria che ha, per sua natura, nella competizione e nella lotta elettorale il suo punto di forza.
Dubito che i padri dell’autonomismo avrebbero mai immaginato di dover lasciare in eredità la loro lezione per vederla superata e schiacciata in questo modo. Può anche darsi che sia un’analisi sbagliata, ma la lezione della storia difficilmente fallisce.