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Merita una lapide il ricordo di Antonio Solinas?
 
Ai nuoresi sembra essere sfuggito che nel 2003 ricorreva il centenario della morte del nostrano poeta Antonio Giuseppe Solinas; certamente è sfuggito a quell’odierna intellighenzia nuorese che, nell’ambito della promozione e valorizzazione della lingua sarda (come raccomandata dalla legge regionale 15 ottobre 1997, n. 26), non ha trovato di meglio che apporre all’ingresso del palazzo ospitante gli uffici dell’amministrazione provinciale la lapidaria scritta PROVINTZIA; così coniando un neologismo che, in difetto di apposita spiegazione didascalica, è oltretutto difficile rapportare alla lingua sarda(1).
Molto più coerente, peraltro, era stata la traduzione dall’italiano al sardo ideata da un noto sindacalista (ma era soltanto “un sindacalista”) che più di mezzo secolo fa aveva battezzato come s’istanzia e su traballu la Camera del lavoro.
Un rimbrotto andrebbe veramente mosso a quella provincialistica (in tutti i sensi) intellighenzia che male sembra avere interpretato la finalità della legge regionale e che meglio avrebbe fatto, data la ricorrenza, ad apporre una lapide (ovviamente redatta in lingua sarda e con indicazione didascalica per i turisti) sulla casa che ora sorge rimaneggiata ove già sorgeva la casa natale di Antonio Giuseppe Solinas (nel vicolo su Via Ferracciu, all’altezza del vicinato Presone) o, in alternativa, ove sorgeva la casa di “zia Antioca” (Via N.Paganini, 28/32, attualmente rimaneggiata in parte) nella quale il poeta nuorese cessò di vivere, appunto un secolo fa.
Quel tipo di lapidi poste a ricordo non esigono, peraltro, che la casa avente relazione con personaggio da ricordare ai posteri sia, al momento, ancora esistente nella sua struttura originaria, ben potendo essere collocate, con apposita e specifica precisazione, nell’edificio che ad essa si è sovrapposto. Un esempio “storico”, fra i tanti possibili, può dimostrare la credibilità dell’assunto. A Roma, nella centralissima Via Torino, sulla facciata laterale del Teatro dell’Opera (il glorioso Costanzi) è apposta una lapide che ricorda come in quel sito sorgesse prima il villino degli Strozzi e come in esso Vittorio Alfieri avesse scritto la Merope e il Saul.
Non è un esempio da poco. È un esempio del come le pietre possano variamente raccontare la storia, anche letteraria.
A Nuoro, Antonio Giuseppe Solinas era ed è più conosciuto come Canonico Solinas, perché era sacerdote e canonico della cattedrale. Canonico teologo, ci ricorda Gonario Pinna nella sua nota Antologia (2); e, possiamo aggiungere, buon teologo, anche perché la teologia aveva allora razionale ispirazione tomistica e limitava il proprio campo di conoscenze umane a quanto poteva essere desunto dalla Rivelazione. Non era, insomma, contaminata da demagogiche propensioni terzomondiste o, peggio ancora, da illusori cedimenti a certe tendenze filoislamiche.
Ma, sia chiaro, questa precisazione non ha e non vuole avere alcun intento limitativo; è anzi finalizzata a un’apertura culturale, proprio perché quella teologia – a differenza di certa impostazione postmoderna (non “ufficiale”, per comprensibile prudenza) improntata a quella pantomima terzomondista che sembra ridursi alla “assenza di Dio dal Mondo” e che pare abbia ispirato a Gianni Vattimo l’incursione in un campo che sembra essergli poco congeniale (3) – esprime una propensione verso “la bellezza” e, perciò, verso ogni espressione artistica, tanto che ha ricevuto adeguata teorizzazione in una delle più significative opere del contemporaneo teologo Bruno Forte (4).
Certo è, comunque, che già prima di tale teorizzazione, molti teologi e predicatori avevano chiaramente intuito (ed è l’intuizione, ossia il pascaliano ésprit de finesse, che ha sempre guidato il loro concreto operare) che la Parola può meglio essere ascoltata e recepita tramite il veicolo dell’arte. Ed è proprio in questa scia che mi sentirei di inquadrare storicamente l’attività artistica del Canonico Solinas, svincolandola da quanto di riduttivo sembrerebbe emergere dalla operata scelta dello strumento espressivo dialettale.
Nella ricordata Antologia, Gonario Pinna sottolinea l’opportuna distinzione (teorizzata da Pietro Pancrazi) tra “poeti dialettali” e “poeti in dialetto”(5); distinzione che, certamente, ha tratto spunto dal crociano “distinguo” tra letteratura spontanea e letteratura dialettale riflessa (6). Ed io non esiterei a inquadrare l’eclettico Canonico Solinas, a seconda dell’idea che di volta in volta lo ispira, tanto tra i poeti “in dialetto”, ossia “quelli che adoperano il dialetto sottoponendolo senza residui folcloristici all’ispirazione”, quanto tra i “poeti dialettali”, ossia quelli che scelgono il dialetto in funzione della peculiarità dell’etnia caratterizzante il messaggio, cioè in funzione di quella cultura subalterna che caratterizza il microcosmo dal quale lo stesso poeta non intende affatto evadere.
Poeta dialettale, in senso proprio, è infatti quello condizionato da una stretta, indissolubile consonanza tra i valori etnici e lo specifico, individuante linguaggio che è, anche storicamente, connesso all’etnia.
Quel poeta, appunto, che nel linguaggio dell’etnia vede una genuina espressione della cultura subalterna cui egli avverte talvolta la pur occasionale necessità di rimanere vincolato, perché in essa intravede il solo valore capace di creare una consonanza con la ristretta cerchia di selezionati destinatari cui il messaggio poetico è rivolto e indirizzato.
Poeta dialettale, insomma, è quello che traduce in immagine le idee ispirate a una dimensione microcosmica, con la consapevolezza che, nella specificità etnica, il più appropriato mezzo di traduzione è la lingua vernacolare sgorgata, non si sa come, da quel contesto microcosmico.
Poeta in dialetto è, invece, quello che conforma il proprio messaggio artistico all’universalità della cultura, riducendo gli ammiccamenti alla specificità dell’etnia, per altri versi a lui congeniale, a una semplice trasposizione linguistica che, peraltro, costringe talvolta alla forzatura di quella ortodossia semantica che i puristi sembrano apprezzare molto scarsamente.
Come si è accennato (v. anche la prec. nota 5) una difficoltà di siffatti inquadramenti sistematici sembrerebbe ancora presentarsi quando “il dialetto” ha esso stesso – come nel caso che ci occupa – la dignità di vera e propria “lingua”. Ma l’ostacolo ben può essere aggirato se l’attenzione viene rivolta, oltre che allo strumento linguistico di per sé, anche al genere di cultura (universale o subalterna) che caratterizza il messaggio (7). Sicché, per scendere al concreto, e risparmiando al lettore ulteriori disquisizioni su un argomento che alla fine rischierebbe di apparire addirittura ozioso, ben può concludersi che il poeta Antonio Giuseppe Solinas – il quale, peraltro, ha espresso anche poesie in italiano (8) – può a ragione essere considerato, in modo prevalente “poeta in dialetto” (più che “poeta dialettale”), perché i messaggi ch’egli destina alla pur ristretta cerchia degli abitanti del microcosmo sono espressione di una cultura universale, la quale concede alla specificità dell’etnia solo quanto basta per catturare l’attenzione di quei destinatari che altrimenti sfuggirebbero, se la lingua adoperata fosse l’italiano, anziché il sardo. L’abitudine sacerdotale, specificamente “pastorale”, gioca qui un ruolo determinante.
Sono messaggi, quelli di Solinas, di pretta marca esistenzialista, certamente improntati a una solitudine esistenziale poeticamente traslati nella comprensibile dimensione del materiale distacco dalla città natale; il quale è fonte di angoscia scarsamente attenuata dalla ridotta temporaneità di un esilio più immaginato che reale. Nello “sradicamento” non v’è infatti, di per sé, nulla di tragico, sia perché soltanto temporaneo (motivato, in concreto, da ragioni di studio), sia perché la lontananza da Nuoro (e dalle abitudini nuoresi) è molto relativa. È, invece, il senso di solitudine interiore che angoscia il poeta, quella solitudine che lo induce a compiangersi e a ricercare un effimero antidoto in quei ripetuti componimenti ditirambici che esprimono una tragicità votata a superare la sfera microcosmica e ad attingere a un’appagante dimensione universale.
Salvatore Satta, ne Il giorno del giudizio, Cap. IX, ricollega il compiaciuto ricordo del Solinas al ditirambo Brindisi che il Poeta aveva composto nel 1895 (9): So solu / mischinu / chin dolu / continu. / M’est solu / su binu / consolu divinu. / Sa vida / chi passat / fuende / deghida / sa tassa mi rendet. Nel romanzo sattiano sono riportati solo i primi quattro versi, come declamati dal vescovo Mons. Dettori in occasione di un pranzo da lui offerto ai notabili nuoresi “qualche giorno dopo” la presa di possesso della diocesi. Nella narrazione, il vescovo racconta ai convitati di avere conosciuto nel seminario di Sassari “un ragazzo pallido e triste che cantava in versi dolenti la patria lontana”; e quando chiede agli astanti dove quegli ora si trovasse (dopo che il canonico Sanna aveva identificato in esso il Solinas) ottiene la risposta: “ È morto, poveretto. Aveva solo ventinove anni, per quanto fosse già canonico”(10).
Satta ricorda quei versi perché in essi vede un quid funzionale all’analoga idea trasfusa nel proprio romanzo, quella dell’angoscia generata dalla solitudine spirituale e della esorcizzazione di essa attraverso l’ironia.
Ecco, quindi, che un’affinità spirituale pare possa essere colta tra il Solinas e il Satta. Quell’affinità che si rivela attraverso la proposizione di un’idea di solitudine spirituale, la quale però non volge in tragedia se debitamente esorcizzata con l’adeguato strumento dell’ironia.
In Satta, l’ironia sembra un quid letterario ancora da scoprire, se la critica pare avere ad essa prestato scarsa attenzione. Ma all’attento lettore non potrà sfuggire che ogni evento umanamente tragico è immediatamente esorcizzato con una battuta ironica. Ne è probante esempio l’immagine offerta nel citato Cap. IX (de Il giorno del giudizio): “Il Signore chiamò a sé Mons. Dettori in un certo giorno di un certo anno. E fu certamente un errore, perché il vescovo si portò appresso il suo mito, e i preti di Nuoro ripresero a guardarsi in cagnesco”. Laddove è chiaro che la tragicità dell’evento (la morte) è annullata dall’ironia trapelante dall’inverosimiglianza dell’errore divino.
In Solinas, l’ironia traspare evidente quando l’angoscia della solitudine viene esorcizzata con l’esaltazione dell’effimero, per l’occasione raffigurato nell’immagine di un improbabile libagione. Euripide aveva esaltato “il grappolo”, ossia il vino, come rimedio ai mali del giorno (11); Solinas esalta l’antidoto “del bicchiere” al veloce scorrere della vita. Ma l’ironia non ha effetto terapeutico; né al teologo sfugge che i mali spirituali reclamano non già un effetto placebo, bensì una terapia che aleggia in tutt’altra dimensione, privilegiante l’aspirazione al trascendente. Ma tuttavia non è bandita (dai componimenti poetici) perché le è assegnato un ruolo insopprimibile, fondamentale: quello di favorire, attraverso l’agevole piacevolezza intellettuale, la ricevibilità del messaggio artistico.
Solinas ha la perfetta consapevolezza che i suoi concittadini (che sono, poi, i diretti e soli destinatari del messaggio) sono portati all’ironia, sono cioè beffulanos (12): sicché nella ricerca del linguaggio comune, quello che appunto crea l’intesa tra il poeta e l’indistinta generalità dei microcosmici destinatari del messaggio, il Nostro trasfonde nei propri versi quella profonda traccia di sorriso che del resto, a lui che è nuorese quanto quelli, è assolutamente congeniale (13).
Quello dell’ironia è forse il motivo predominante del lungo componimento Su contu de Noè (composto di un proemio e sette canti), in cui tra l’ironico e l’umoristico (14) è dialettalmente ricostruita la biblica narrazione del diluvio universale, concepita come racconto che il poeta sciorina a beneficio di “compare Bobore”, seduti i due intorno a un focolare ravvivato da un rustico convivio.
La libagione, in esso, rievoca la soddisfazione provata appunto da Noè cand’at fattu su mustu (15).
È, di certo, un racconto poeticamente notevole, quello proposto dal Solinas; eppure di esso non sembrano essersi ricordati i nuoresi (che forse, nella maggioranza, non ne hanno neppure conoscenza). Dello stesso componimento s’è, invece, meritoriamente ricordato il medico bittese (ma operante professionalmente a Sassari) Giuliano Chirra che, proprio per celebrare l’altrimenti dimenticato centenario della morte del Poeta, ha composto una simpaticissima parodia che si snoda parallelamente (“a fronte”, per concedere qualcosa alle reminiscenze scolastiche) al racconto originale (16). Dice Natalino Piras in una recensione (17), riassumendo appunto la parodia, che Su contu in versione Chirra “è un continuo viaggiare nel tempo di Solinas … reinventato seguendo i protagonisti principali che sono quattro matricolati abigei dai nomi significativi: Santu Biasu, Ghespeddu, Bobore kara e lepore e Mariane che di Noè è cugino. Sono le gesta di quei ladroni che spingono Babbu Mannu a mandare il diluvio sulla terra”. Babbu Mannu è Dio, come evidente; ed è per di più compare di Noè, cui si rivolge col tradizionale boisi, secondo un’inveterata consuetudine barbaricina (entrambi rigorosamente indossanti il costume sardo, secondo le spiritosissime illustrazioni dello stesso Autore).
Chirra accentua l’ironia già abbondantemente trasfusa dal Solinas nel proprio componimento, fino a concludere la narrazione con un grottesco quadretto che vede Babbu Mannu e Noè distesi sull’erba per riposarsi dalle fatiche dell’attività pastorale, soddisfatti e tranquilli finché il primo s’accorge che la sparizione di certi agnelli è opera dei sopravvissuti quattro abigei scampati non si sa come al diluvio. Lo sconcerto porta i due a concludere: Pedde mala no ne mòrit!; aveva perciò ragione su turronnaju: … su mundo est gai. A sicut erat e non torra mai!
Tornando, allora, al discorso iniziale, ben può dirsi che il poeta Antonio Giuseppe Solinas merita certamente di essere tenuto in considerazione più di quanto i suoi odierni concittadini non facciano. Merita cioè di essere maggiormente conosciuto, perché la sua produzione poetica va ben oltre, valoristicamente, quel pur simpatico quadretto che raffigura su nugoresu, oggi considerato (dai nuoresi, appunto) come fosse l’unico componimento poetico del Solinas degno di essere conservato.
È, quel quadretto, un “ritratto di genere”, con tutte limitazioni che di tale tipo di componimenti sono peculiari. Oggi è in atto la rivalutazione della ritrattistica, come genere artistico che, addirittura, si colloca in una dimensione differente rispetto agli altri generi di espressione artistica, per la sua peculiarità di rendere evidente un rapporto di valenza incontestabilmente filosofica tra l’artista e il modello (18). Ma un discorso di tale tipo non sembra potersi attagliare al “ritratto di genere”, quantomeno a causa della disomogeneità dei due elementi del rapporto, ossia quelli della concretezza della personalità dell’artista e dell’astrattezza categoriale di un quid che si caratterizza soprattutto per la convenzionalità.
Certo è che il ripetutamente declamato sonetto Su nugoresu è bensì simpatico, ma poeticamente debole. E se all’autoctono nuorese piace, ciò avviene soprattutto perché egli trae soddisfazione dall’essere definito bellu de aspettu, forte e corazzadu, nonché beffulanu; non certo perché al compiacimento possa essere indotto da una rilevante piacevolezza artistico-intellettuale promanante dalla composizione letteraria.
Non vorrei, però, chiudere questa riflessione sull’opera poetica del Solinas con un’osservazione tutto sommato negativa. Richiamerei all’attenzione, piuttosto, le composizioni esprimenti quel “filosofico” senso di solitudine spirituale cui ho fatto cenno all’inizio, nelle quali la genuinità dei sentimenti è resa esplicita in termini poetici di alta levatura che nulla concedono alla folkloristica coreografia normalmente finalizzata all’applauso immediato (19). Di esse la memoria dell’opera poetica di Antonio Giuseppe Solinas non ha affatto bisogno.
1) Con una nota redazionale del 31 agosto 2003, L’Ortobene ha definito quel brutto neologismo espressione di una parlata simil-sarda, nonché emblema (insieme ad altre espressioni provenienti dall’amministrazione provinciale) di una pubblicità ingannevole. Della scritta lapidaria PROVINTZIA, per il vero, nessuno ha mai avvertito la necessità, anche perché chiunque ricerchi l’ubicazione degli uffici di tale amministrazione non ha affatto bisogno di essa. Una scritta parimenti simil-sarda è peraltro quella che viene clandestinamente apposta sui muri da certi indipendentisti, finalizzata a reclamizzare un movimento politico. Ma questa, almeno, non è ingannevole, perché non finalizzata a indicare alcunché di cui la gente possa avere bisogno. A mio avviso, comunque, la denominazione “simil-sardo” è meritevole di ulteriori fortune, sicché auspico che venga d’ora in poi adoperata per bollare ogni imbastardimento di una lingua che, ormai, deve rimanere (quando rimane) esclusivamente nei componimenti poetico-letterari. 2) GONARIO PINNA, Antologia dei poeti dialettali nuoresi, Cagliari, Fossataro, 1969, pag. 137 s.
3) GIANNI VATTIMO, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Milano, Garzanti, 2002. Sull’argomento, con un excursus storico, cfr. EMANUELE SEVERINO, Sul significato della morte di Dio, saggio inserito nel volume Essenza del nichilismo, Milano, Adelphi, 1955.
4) BRUNO FORTE, La porta della bellezza. Per un’estetica teologica, Brescia, Morcelliana, 2000 (3ª).
5) I rilievi di stampo prettamente letterario inerenti alla poesia dialettale in genere appaiono del tutto pertinenti anche al caso della poesia in lingua sarda; perché se è vero, da un lato, che “il sardo” è morfologicamente una lingua e non un dialetto italiano (in senso linguisticamente tecnico) – come sarebbe se, rispetto all’italiano, esso ne fosse una parlata affine, caratterizzata dalle reciprocità delle influenze – è pur vero, dall’altro (ed è proprio questo il dato che caratterizza la pertinenza di quei rilievi), che nell’uso comune, in difetto di un formale bilinguismo, il sardo si colloca in contrapposizione al sistema linguistico italiano, esattamente quanto lo sono tutti i vari dialetti, da quello piemontese fino a quello siciliano.
6) Nel saggio La letteratura dialettale riflessa, la sua origine e il suo ufficio storico, inserito in Uomini e cose della vecchia Italia, BENEDETTO CROCE ha scritto tra l’altro: “Il movente effettivo o il movente principale della letteratura dialettale riflessa non che essere l’eversione o la sostituzione della letteratura nazionale, era, per contrario, l’integrazione di questa, la quale le stava dinanzi, non come un nemico, ma come un modello”.
7) Dovrebbe a questo punto del discorso, se lo spazio tipografico lo consentisse (ciò che non è), essere inserito il tema dell’influsso che sui poeti dialettali esercita, inevitabilmente, la poesia popolare; intesa quest’ultima come “patrimonio collettivo” (così GONARIO PINNA, nella Introduzione all’Antologia, cit., pag. 20) formatosi per acquisizione diffusa di componimenti dei quali non è più individuabile il primo autore, o per via di stratificate trasformazioni, ovvero per l’omessa registrazione immediata di canti estemporanei (compresi quelli delle c.d. gare poetiche). Il poeta dialettale, in genere, adopera la parlata vernacolare come strumento atto, più di ogni altro, a stabilire un feeling coi potenziali destinatari del proprio messaggio; e, in questo ambito, conseguentemente è portato ad adattare i propri mezzi espressivi a quelle conformazioni della cultura subalterna (tra cui, ovviamente, quelle in discorso) che esprimono il gusto generalizzato, appunto, dei molteplici cultori della poesia popolare. Con riferimento, poi, al caso specifico della poesia popolare nostrana, cfr. ELENA CHIRONI, La poesia popolare nuorese, in Il folklore italiano, 1926, I.
8) Nella raccolta Versi del Canonico Antonio Giuseppe Solinas (1872 – 1903), Nuoro, Solinas, 1977, DIEGO PASQUALE MINGIONI (autore anche della Presentazione) inserisce le seguenti liriche in italiano: Stornelli; Al Can. Pasquale Lutzu; Un brindisi per forza; né io sarei in grado di dire se ne abbia composte altre. La versatilità del Solinas, rivelata anche dalle (pur non frequenti) incursioni nell’aulica lingua logudorese, si manifesta soprattutto quando il Nostro, dal campo della poesia, passa a quello della pittura. Non conosco altri dipinti che quello esposto nella sacrestia della cattedrale nuorese, raffigurante la statua del Redentore, eseguito poco dopo l’installazione nel Monte Ortobene. In esso, all’ingenuità dilettantesca della pennellata (era evidentemente scarsa la dimestichezza con quel genere espressivo) fa da contraltare un’impostazione compositiva certamente meritevole di attenta considerazione.
9) Vedilo nella raccolta curata da DIEGO PASQUALE MINGIONI (cfr. la nota precedente).
10) La sfasatura temporale trasparente dal romanzo sattiano è macroscopica, anche se non incidente sull’importanza di una reminiscenza che concorre a legare Salvatore Satta al microcosmo nuorese. Il vescovo Dettori è, palesemente (e inoppugnabilmente, se si consulta il manoscritto de Il giorno del giudizio), il personaggio storico mons. Salvatorangelo Maria Demartis, il vescovo più longevo dell’episcopato nuorese, il quale aveva fatto il suo solenne ingresso a Nuoro alla fine del maggio 1867, rimanendovi fino al 24 giugno 1902, giorno della sua morte. E poiché il Canonico Solinas era morto (all’età di trentuno anni) il 21 febbraio 1903, ecco che la sfasatura temporale risulta evidente. Satta, comunque, aveva poco prima prudentemente precisato, questa volta in veste di speacker fuori campo: “Qui devo avvertire onestamente che quel che dico può essere tutta fantasia perché l’ho appreso da bambino nei racconti di Don Sebastiano, se pure non me lo sono sognato, perché la figura del vescovo è avvolta in un alone di favola”. Oggi, peraltro, una qualunque imprecisione temporale, in quel campo, sarebbe imperdonabile, dal momento che SALVATORE BUSSU ha posto ordine nella cronologia dell’episcopato nuorese, pubblicando il prezioso volume (prezioso per la consultazione, oltre che estremamente interessante) Nuoro e il senato del vescovo (Nuoro, Solinas, 2003).
11) Le baccanti, 282: ùpnon te léthen ton cath’ eméran kakòn (il grappolo, il vino oblio dei mali del giorno).
12) Quello di beffulanu è uno degli epiteti che Solinas affibbia all’uomo nuorese, nel sonetto Su nugoresu; e beffulanu significa, incontestabilmente, portato all’ironia. Ecco, allora, spiegato il perché Solinas privilegia lo strumento letterario dell’ironia quale catalizzatore dell’intesa tra mittente e destinatario (come si dice oggi) del messaggio artisticamente espresso. La poesia “dialettale”, in genere, nasce come poesia dedicata a coloro che parlano quel particolare “dialetto”; sicché non avrebbe neppure senso pensare di globalizzarla mediante traduzioni. È, insomma, una forma di comunicazione ristretta, programmaticamente limitata a una singola cerchia di destinatari, le cui specificità non solo culturali, ma addirittura etnico-antropologiche, vengono esaltate quale segno distintivo di un’intesa costituente l’optimum della comunicazione. Ecco, allora, spiegato come l’ironia, in Solinas, assume caratteristiche di imprescindibile valenza, in quanto sicuro elemento di un comprensibilissimo linguaggio comune.
13) Coglierei questa occasione per ricordare come un altro letterato nuorese, il contemporaneo romanziere Franco Floris, imprima una profonda traccia di soffusa ironia alla narrazione degli accadimenti che di volta in volta l’ispirazione gli suggerisce di rievocare. Particolarmente incisiva, la vis ironica compare nel libro di racconti Il suonatore di mandolino, di recente pubblicazione, in cui il velo dell’ironia si stende sulla storicità del vissuto, quasi finalizzato a esorcizzare la recondita drammaticità dell’esistenziale.
14) Di certe trovate umoristiche – come quella dello “sbarco” che Noè solennizza facendo intonare l’inno di Garibaldi e acquistando presso una macelleria un vitello da sacrificare – Gonario Pinna evidenzia una validità letteraria perlomeno pari a quella de La scoperta dell’America di Cesare Pascarella. Chiaro il riferimento all’episodio del primo incontro di Colombo con un indigeno, il quale, alla domanda chi egli sia, risponde stupito: Eh – fece – chi ho da esse? So un servaggio. A scanso di equivoci, comunque, va chiarito che il Solinas non avrebbe potuto trarre ispirazione dal Pascarella, per l’ovvia ragione che Su contu de Noè fu composto nel 1890, mentre l’opera pascarelliana fu divulgata più tardi, dall’Autore, nel 1895.
15) Può essere indicativo il ricordare che La scoperta dell’America è poeticamente concepita da Pascarella come racconto che un bontempone sciorina a beneficio dell’amico, seduti i due intorno a un tavolo, in un’osteria in Trastevere.
16) GIULIANO CHIRRA, Su contu de Noè – del Canonico Antonio Giuseppe Solinas (Nuoro 1872-1903), Muros (Sassari), Stampacolor, 2003. Nella didascalia in prima di copertina, Su contu è indicato come Liberamente interpretato e tradotto dal sardo nuorese ed illustrato da Giuliano Chirra.
17) NATALINO PIRAS, “Su contu de Noè” rivive il capolavoro del canonico Solinas, in La Nuova, 29 luglio 2003.
18) Così GIUSEPPE BERNARDI, Il potere del ritratto, in Il Giornale, 27 agosto 2003. Il discorso del Bernardi attiene, nello specifico, alla ritrattistica pittorica; ma la sua valenza travalica senz’altro il singolo mezzo espressivo, per diventare canone parametrante di ogni possibile espressione artistica.
19) A questo proposito torna opportuna la distinzione tra poesia “in dialetto” e poesia “dialettale”; laddove dovrebbe apparire chiaro che componimenti come Su nugoresu sono da inquadrare nel genere dialettale, mentre gli altri, che ho indicato per la specifica qualità del messaggio, sono certamente da catalogare tra la poesia in dialetto. Quel tipo di distinzione appare così, all’atto pratico, quantomai utile.
NUMERO /1
Anno 2004, n. 1
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