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Soru o non Soru, e se non lui chi?
 
Alzi la mano chi non ha pensato, in questi giorni, almeno una volta, che sarebbe tempo che la smettano, questi rimasugli di partiti, di bizantineggiare petulanti, e che liberino il campo al capo mandato dal destino, non si sa come, non si sa dove, a guarire i mali del mondo!
Per i lettori di Nuoro Oggi, comunisti impenitenti, forse un poco pentiti ma pertinaci, il capo è, ovviamente (ovviamente?) Soru, per gli altri sarà Pili (Pili!), o Delogu, o il gran capo in persona, ma, da una parte e dall’altra, c’è, comunque, il desiderio di un capo, il bisogno di un capo, l’invocazione di un capo.
Come se fossimo appena usciti storditi da una baldoria di libertà, pare che vogliamo tutti consegnarci al terapeuta, al gran sacerdote che ci guarirà tutti, sgridandoci, guidandoci, imponendo su di noi le sue mani sacrali.
Sembra impossibile, uno scherzo, il racconto di un sogno folle, eppure è così: andremo a votare con una legge elettorale che incoronerà un capo e potremo scegliere tra un mezzobusto telegenico che, come politico, ha fatto più guai in cinque anni di suo padre in trenta, ma è raccomandato da sua maestà in persona, e un signore sconosciuto che non ha mai fatto manco il consigliere comunale e conosce solo l’amministrazione del suo patrimonio privato, ma promette che non ascolterà nessuno che non sia del tutto sprovveduto nella amministrazione pubblica, e, a destra e a sinistra, ognuno sembra godere di questa esaltante alternativa, convinto che, se vincerà il suo paladino, tutti i mali finiranno. Incredibile!
Gli elettori di destra non pensano certamente che Pili abbia di suo una benché minima capacità di governare. Sono, però, convinti che farà tutto quello che gli sarà ordinato dall’uomo del destino, senza disturbarlo e irritarlo, e che questo sarà un bene in sé. Gli altri (ma chi? Noi?) pensano, evidentemente, che un signore che ha fatto bene i suoi affari, irritato della insipienza di chi si occupava della cosa pubblica, ha deciso di regalarsi al bene della sua gente e non potrà che fare bene con la cosa pubblica come ha fatto bene con la sua azienda. Ma chi lo pensa? Noi? No. Non noi.
Non possiamo pensarlo noi. Avevamo detto che era un ragionamento assurdo già quando lo faceva l’altro. Abbiamo sempre sostenuto che il potere politico e quello economico devono restare distinti e separati, complementari, non contrapposti, ma non confusi, non riuniti in un’unica persona. Si chiama dittatura, altrimenti. Si chiama regime. Si chiami come vuole, non certo democrazia! O abbiamo smesso di pensarlo? O abbiamo deciso che la monarchia è buona se il re è buono. pensiamo che possa essere buona se è una monarchia elettiva, purché possiamo scegliere il re, confermarlo se è saggio, o abbatterlo se dà segni di follia? Abbiamo scoperto che la monarchia può essere elettiva? Ma si. Basta saperlo.
Così sembra essere. Il sistema elettorale che ci guiderà in futuro è quello di una monarchia elettiva. L’hanno adottato quasi tutti, sostenuto quasi tutti con grande convinzione e nessuno pare avere dubbi o ripensamenti.
La differenza tra gli schieramenti non è sul sistema ma sul candidato. A sinistra (a sinistra?) la diatriba somiglia al delirio: tutti d’accordo che va eletto un re, ci si pone il problema di chi potrà essere ammesso alla sua corte. Il futuro re dichiara che sarà lui a scegliere, i candidati cortigiani vorrebbero scegliere loro i camerieri. Sconcertante! Avete fatto voi una legge elettorale che dice che il popolo eleggerà un principe e che quel principe si circonderà dei suoi uomini fidati e deciderà da sé che cosa fare.
Vi aspettate che, una volta eletto, rimetta in discussione i suoi poteri? Ma non sarebbe stato più semplice fare un’altra legge, finché potevate farla, finché eravate incaricati di farla? Non sarebbe serio rivedere la legge piuttosto che ripetere il mal vezzo di sempre, eludere una legge appena fatta? O no?
E ci si accorgerebbe che si pensava di eleggere un re e si avrà un prefetto, ci si proponeva un consiglio più rappresentativo della società civile e si avrà una corte di provincia, la cui unica prerogativa sarà quella di aumentare i propri emolumenti e decidere come investirli. Il prossimo presidente della regione sarda (anche delle altre, ma chi se ne frega delle altre!) sarà il viceré di un tempo e il consiglio regionale avrà la stessa importanza che aveva la corte cagliaritana di un tempo.
Un funzionario borioso che prenderà gli ordini direttamente dal suo signore e una corte vana che, ogni tanto, rivolgerà qualche supplica al sovrano. Saremo ridotti a questo! Abbiamo desiderato questo! Come possiamo pensare che una persona incaricata direttamente dal sovrano (chiunque sia, a qualsiasi ramo della dinastia appartenga) possa avere a cuore i nostri interessi più di quelli del suo signore e che i nostri rappresentanti, privati di qualsiasi ombra di potere, quando anche fossero tutti onesti e sinceri, possano difenderci meglio di quando almeno sulla carta avevano qualche prerogativa sovrana?
È la storia che si ripete. Ma non è una commedia. È un dramma cupo. Quando una trentina di maggiorenti cagliaritani decisero di rinunciare a quella autonomia che ormai era ridotta a una burla (gli stamenti, ovvero il parlamento di allora, mai convocati e una magistratura locale squassata dagli odi e disprezzata a Torino) erano seriamente convinti che avrebbero dato alla Sardegna gli stessi diritti della terraferma, come si diceva allora e andarono a supplicare un re riluttante (Carlo Alberto era più saggio dei suoi servi) a estendere ai sardi le stesse leggi del Continente.
Quando, pochi anni dopo, la maggioranza di loro si accorse dell’errore, era ormai troppo tardi: il catasto da solo aveva reso i sardi da poveri, miserabili, perché la gran parte dei piccoli proprietari aveva ceduto i terreni al notaio per le tasse non pagate; il servizio militare portava via le braccia alla terra per cinque anni, il cambiamento dei pesi e delle misure aveva reso (come adesso con l’euro) tutti vittime di bottegai disonesti, i comunali venivano regalati per pagare le tasse, le importazioni dei tessuti dalla Francia erano divenute impossibili per i prezzi assurdi e l’esportazione della carne, del latte, dei formaggi e del vino non dava più che un reddito da fame. Avere deputati e senatori in un parlamento che non li ascoltava era solo un costo inutile e insostenibile.
Dopo cento anni da quella sciagurata scelta, dopo una strage immane di sardi un due guerre assurde, alla Sardegna è stato restituito un pezzo di quella autonomia che gli spagnoli avevano cercato di conservarle con il trattato di Utrecht e che i sardi avevano gettata via con spregio. E adesso, dopo sessant’anni, i nuovi imbecilli la buttano senza neanche accorgersene. Almeno i maggiorenti di allora partivano da un ragionamento che, se pure si è rivelato fallace, aveva una qualche base logica.
Adesso sono partiti dai calcoli più cretini, nel più totale disprezzo per le conseguenze. Non si accorgono, evidentemente, che sminuire le prerogative del consiglio (in pochi anni hanno stabilito che i consiglieri non possono essere assessori, quindi hanno scoperto che i consiglieri si divertivano a bocciare leggi che non condividevano, facendo il loro sacro santo dovere, e adesso esultano per una legge che li riduce al silenzio) significa eliminare ogni possibilità per il popolo sardo di decidere il proprio destino se non affidandosi a suppliche al sovrano e inviando desiderata al governo. Altro che Statuto Speciale! Altro che autonomia!
NUMERO /1
Anno 2004, n. 1
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