Giocano un ruolo di primo piano in questo dramma le torsioni tra il mondo sociale e il mondo logico, l’incommensurabile dialogo tra la tecnica e il pensiero, la distanza metafisica tra essere e dover essere.
Sull’altra sponda del declino dell’uno vi sta un molteplice, il cui motore decostruttivo è come un vortice divorante.
Eppure ogni definizione del concetto di politica non può ignorare il riferimento costante all’idea di polis, che è da intendere non solo in quanto comunità umana, ma inerisce una molteplicità di relazioni e di soggetti, di azioni e di intenzioni, di bisogni e di regole.
Riscoprire il concetto di politica, il valore della politica, può significare tenere insieme questi due poli ad un tempo divergenti e convergenti, quasi fossero non determinanti una natura contraddittoria ma testimoni di uno spirito vitale. Un bel libro di Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, (Einaudi, Torino 2001) ci mette di fronte a una riflessione che muove dalla nozione di “essere” inteso appunto - lo dichiara il titolo - come “singolare plurale”, rimandando ad una originarietà dell’essere che spinge l’uomo a cercare il senso pieno della propria vita non fuori di sé, ma in sé. O meglio: a identificarsi interamente con il senso. Ma cosa significa “essere senso”?
Significa che l’uomo non è un pieno di sé, ma è piuttosto un vuoto per sé; non è un corpo chiuso, ma è un’apertura. L’essere politico dell’uomo consiste nel suo essere un’area di circolazione dei significati.
Il sintetizzare l’uomo come “presente soggettivato di diritti” o come “presenza oggettivizzata di doveri” non rende ragione di questa apertura. Per esserlo il vettore dei diritti e quello dei doveri devono insomma aprirsi l’uno all’altro fino a condensare il medesimo momento individuale. La politica è quindi dentro l’essere dell’uomo perché interpreta la massima sintesi di singolare e plurale. Una sintesi che come rivela la formula di Nancy non risulta da un nodo sintattico artificiale che media tra singolare e plurale. L’assenza di un segno amplifica il nesso fino a esplicitarne il senso. E come la politica anche la storia è dentro l’uomo come significante e significato circolante. Le pulsazioni storiche dell’essere e la sua apertura politica, sono influenzate e informate dalle vicende della comunità umana, le cui dinamiche incidono sul respiro dell’essere singolare plurale. Pensiamo per esempio alle interferenze che i flussi migratori generano sull’“essere senso”.
E pensiamo a quel concetto di cittadinanza su cui sono puntati i riflettori di quei media sensibilissimi che sono i gruppi politici.
Il senso del “far gruppo” intorno a un presente significante spinge verso una nozione di cittadinanza che è prima di tutto criterio di esclusione, perché tende a separare chi possiede determinati diritti da chi ne è privo. È da evidenziare la scotomizzazione dei doveri. L’identità del soggetto è pertanto costruita sull’esclusione: il suo essere risulta da un’opera di riduzione, come lo scultore che realizza la sua opera sottraendo ed eliminando l’eccedente. Ciò che l’essere è risulta da ciò che viene asportato e lasciato fuori. Questo concetto di identità trasforma la comunità umana in vittima della storia, la spinge in difesa e ne fa emergere i momenti di massima meschinità provinciale. Sfugge all’identità politica una visione del proprio futuro che non sia gravata dal contingente interesse singolare, e quindi parziale. Per riprendere il linguaggio di Nancy, è come se l’essere rinunciasse ad uno dei suoi significanti - il singolare o il plurale - per significare di più, per aumentare la densità della propria presenza.
Eppure è proprio l’essere singolare plurale che consente, con la sua apertura, di far fronte per esempio all’effetto dirompente delle migrazioni contemporanee, che quando avvengono comportano - per dirla con le parole di un politologo come Sandro Mezzadra - una “scomposizione prismatica dello spazio e dell’appartenenza”, riportando alla luce una nozione di identità intesa come luogo di transizione e di relazione, di trasformazione e di comunicazione.
È quindi un’idea antiontologica di identità, e quindi di cittadinanza, di comunità, di politica. Identità, cittadinanza, comunità e politica disegnano evidentemente un percorso che raccoglie storia, ma progetta anche il futuro. Se riprendiamo quell’idea della fame di senso che misura la temperatura dell’essere umano di oggi configurandolo come un vuoto per sé, un’apertura, ne viene fuori una progetto di identità, cittadinanza, comunità e politica fondato sulla non appartenenza, o anche sulla interpretazione antiontologica della presenza.
Se l’identità muove i suoi passi senza perdere di vista il nodo della non appartenenza, è allora possibile che l’uomo veda nella sofferenza dell’altro, nella non appartenenza dell’immigrato, dell’Altro, la propria sofferenza, la propria identità, la propria alterità, la propria singolare pluralità.