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La discesa in campo di R.Soru
 
Quando si chiede solo a se stessi la salvezza si corre il rischio di mimare e riprodurre le contraddizioni, le miserie e le banalità della propria inevitabile limitatezza e si esclude la ricerca del giusto e del vero. Questa idea di Platone sulla poesia mi pare una magnifica metafora della situazione di smarrimento attuale rispetto alla politica e alla gestione democratica del governo della nostra regione.
È noto a tutti come nelle società avanzate sia venuta meno la fiducia nella politica ed in coloro che la interpretano e la attuano. Questo è un chiaro segno di malattia della democrazia. Per misurarne la gravità è sufficiente leggere le statistiche di partecipazione (i numeri sono implacabili) sia ai momenti elettorali, sia alla vita dei partiti, oppure semplicemente verificare l’opinione che i più hanno dei loro rappresentanti politici, espressa nei sondaggi d’opinione (in questi giorni c’è un gran proliferare di tabelle e commenti illuminanti in proposito).
È evidente che tutto ciò non può essere letto in termini confortanti come segno di cambiamento inevitabile e di evoluzione della idea di democrazia. La crescente rinuncia partecipativa non indica un totale affidamento dettato dalla sicurezza dell’operato di chi governa, evidenzia piuttosto la sfiducia nelle istituzioni e nei suoi rappresentanti ed un convincimento diffuso che “tanto l’uno vale l’altro”, rivela insomma un preoccupante declino democratico e culturale.
Sembra quasi che la democrazia, e con lei tutti gli organismi che ne sono espressione, non riescano a tenere il passo con la società che si va facendo sempre più articolata e complessa nei suoi meccanismi di funzionamento.
I cittadini, oggi sempre più istruiti ed informati, potrebbero (in realtà dovrebbero) esigere di capire con chiarezza il senso delle parole dette, verificare la trasparenza degli atti, pretendere di controllare la correttezza, la coerenza e la moralità dei comportamenti.
Questo, lungi dall’essere un freno e un limite al funzionamento della macchina governativa, rappresenterebbe una garanzia per tutti di maggior democrazia. Invece un atteggiamento di sfiducia generalizzata e quasi di indifferenza (è una gran colpa aver causato ciò!) ha preso il posto dell’impegno politico e convinto le persone dell’inutilità del loro eventuale intervento.
Diversi sono i fattori che causano la sfiducia: la carenza di volontà da parte di una classe politica dirigente presuntuosa, ingorda e goffa a mettersi in discussione (ignoranza, presunzione, prevaricazione, delirio di onnipotenza non sono naturalmente caratteristiche indistinte di tutti, ma come tali sono percepite dai più per delusione e rabbia), l’incapacità a rinnovarsi e rimodularsi secondo differenti parametri e regole (assenza di sogni e idee, di capacità progettuale e creativa; forse ci vuole una sorta di freschezza e purezza di pensiero e d’animo data da nuove forze inventive), la tremenda difficoltà anche solo a pensare di poter perdere privilegi acquisiti (è umano, ma non certo giusto ed etico!) soprattutto se si hanno interessi personali di qualunque natura da difendere.
È chiaro e giustificabile pertanto che si stratifichi nell’opinione comune una sfiducia generalizzata; come è anche comprensibile che, contro questo sentimento antipolitico sempre più diffuso, nasca l’esigenza di tentare nuove soluzioni, ci si appelli ad una presunta maggior sapienza, correttezza ed onestà della società civile che offra (o almeno si spera) maggiori garanzie di una miglior gestione della cosa pubblica e ci si rivolga ad una guida, sentita come più alta, che governi questo passaggio. Questa soluzione però, è bene esserne consapevoli, non offre certezze di miglioramento rispetto al passato, e può contemporaneamente rappresentare un nuovo modo per adulare imbrigliare e quindi tenere meglio sotto controllo lo smarrimento e le conseguenti collera e protesta delle persone indignate.
Rappresenta comunque, (naturalmente tutto il mio discorso è impostato sul piano puramente dialettico ed ogni giudizio di merito è assente), non un segnale di maggior democrazia partecipativa, ma una forma di regressione ad una democrazia demagogica e, in teoria, autoritaria. Rappresenta insomma quella ricerca del Padre autorevole, che dimostra l’incapacità a gestirsi in modo maturo, da soli, secondo regole democratiche condivise, e conferma il bisogno di una Guida forte che mostri il cammino da seguire.
Ecco allora che la proposta sicuramente onesta di Renato Soru è in sé generosa ed apprezzabile, ma contemporaneamente la necessità della sua discesa in campo segna un declino democratico.
Diventa persino troppo facile cercare rifugio nella sua evidente e riconosciuta autorevolezza: una personalità nota internazionalmente (offre quindi buone garanzie di successo), rassicurante (la fortuna nel suo campo può lasciar sperare con buona approssimazione che altrettanto avvenga nel governo della regione, o, quanto meno, garantire capacità gestionali forti), convincente (non solo chi è spavaldo, sicuro ed abile retore lo è, ma anche chi, pur nella sua timidezza evidente e negli atteggiamenti esteriori poco audaci - in verità solo apparentemente perché di fatto l’osare mi pare sia proprio la sua cifra identificante - mostra una sincerità ed una passionalità assolutamente convincenti ), ottimo interprete del momento dei nostri attuali bisogni e delle nostre aspettative affinché nella gestione della cosa pubblica vi sia un recupero dell’onestà umana ed intellettuale, della restituzione di valore e dignità, della verità al di là di ogni ipocrisia, falsificazione ed interesse (naturalmente non sarà dato sapere fino alla verifica diretta di governo quanto giusti siano stati la nostra proiezione e il nostro affidamento ).
È dunque naturale cercare approdo, proiettare speranze di rinascita, forse anche, intorno a ciò, creare mitologie e simboli sulla base delle nostre necessità ed aspettative (Adorno ha teorizzato superbamente su questo).
Naturale allora, forse anche l’unica soluzione possibile e quindi obbligata, ma è comunque un segno di perdita di democrazia. Qualunque sia la nostra scelta, di questo dobbiamo essere pienamente coscienti.
Ogni santificazione, anche non voluta dall’eletto, anche quando avvenga a furor di popolo, che interpreti il bisogno di consegnare nelle mani taumaturgiche di qualcuno le possibilità di riscatto, è un segno di carenza di democrazia, in alcuni casi di uso strumentale della democrazia o, quanto meno, di supremazia oligarchica di una élite.
La democrazia non è un pulpito o un palco (neppure uno sgabello se si presenti in vesti dimesse) da cui predicare le proprie idee per meglio convincere e quindi dominare chi si affida; è una concezione molto complessa basata su un principio di possibilità che, attraverso il dubbio critico, superi il momento e vada oltre, riveda se stessa ed i propri limiti e li migliori costantemente.
Il progresso pensato come giusta panacea, le risposte certe, le convinzioni rassicuranti sono tutte mitizzazioni di una falsa democrazia malata.
L’unica vera garanzia di libertà, di rispetto degli altri, di rappresentanza delle minoranze e delle diversità anche minime, dei diritti di cittadinanza e di attenzione ai bisogni deriva dalla coscienza della limitatezza di ciascuno e di tutti, della necessità di aggiustamenti lungo il percorso, non dall’attribuzione di merito e valore, stabiliti secondo questo o quel criterio, gerarchia, principio, a qualcuno che incarni i nostri ideali di grandezza.
La guida del timone può e deve essere affidata a qualcuno, non perché gli si riconoscono superiori virtù risolutorie e taumaturgiche (quanti d’altronde sono disponibili a riconoscere un valore minore a se stessi rispetto agli altri o ad avere meno meriti sul piano delle competenze politiche o ancora a dichiararsi pronti a ritirarsi perché meno etici?), ma perché si ha piena coscienza che questa è una delle possibilità percorribili per superare il momento critico, per colmare quel senso di sfiducia ed abbandono derivanti da un difetto di qualità democratica che evidentemente, a torto o a ragione, si sente.
Non può e non deve essere neanche una soluzione pensata e decisa esclusivamente da una élite (i torti eventuali dei precedenti non possono e non debbono in nessun modo giustificare e servire da avvallo alle ambizioni degli altri), né deve essere risolvibile con una operazione di finta democrazia, quindi demagogica, perché giustificata dall’incoronamento popolare.
Sarebbe frutto di un atteggiamento emotivo, immaturo e adolescenziale, pur rivelando incontestabili necessità e verità cui bisogna dare risposte. La gestione ed il governo democratico non possono basarsi su una contrapposizione dualistica da tifo domenicale tanto semplicistica quanto perniciosa, di chi ha torto e chi ha ragione, chi è a favore e chi è contro, a maggior ragione questo non può avvenire in una società articolata, informata e complessa come la nostra nella quale per garantire libertà bisogna non solo rappresentare la molteplicità del pensiero, ma garantirne persino le sfumature.
Il rischio altrimenti è di una deriva autoritaria della democrazia che sfrutta lo smarrimento e l’insicurezza per rinforzare al suo interno i meccanismi autoritari di controllo.
La quotidiana osservazione, tramite i mass-media, degli eventi che vicino o lontano a noi accadono, spesso ci porta ad illuderci di essere partecipi diretti della storia che reputiamo stia avvenendo sotto i nostri occhi e il nostro controllo, e ci convince di essere in grado di analizzare, quando non di dominare od indirizzare il corso degli eventi.
Ciò è assolutamente falso.
Nessuno di noi oggi, parlo naturalmente di noi cittadini comuni, anche se assidui lettori e attenti osservatori degli aspetti più diversi degli accadimenti contemporanei, può essere in grado di stabilire, in maniera chiara, la verità degli eventi, anche quando le situazioni ci paiano inequivocabili.
È un inganno costante quello che ci convince di essere partecipi della democrazia, di essere in grado di legittimarla o delegittimarla con la nostra partecipazione diretta in sedi pubbliche o private, rispondendo a quesiti telefonici di sondaggio delle nostre opinioni, mandando e-mail e sms per votare questa o quella scelta, o ancora partecipando ad incontri negli studi televisivi (moderni sostituti dell’antica agorà) dove siamo chiamati a dibattere con altri le nostre idee. In realtà oggi, in questo nostro mondo guidato e dominato dai giornali e dalle televisioni, un po’ tutti siamo dei semplici spettatori, o, a tutto ben andare, ricettori, più o meno critici, di informazioni passate da altri che, forse, sono ancora meno attendibili di noi.
Questo naturalmente non giustifica però alcun atteggiamento pilatesco, non ci pone al riparo dalle responsabilità dirette, morali o politiche, non elimina dalle nostre coscienze la colpa del disimpegno e della quotidiana indifferenza.
Forse non vi è possibilità di incidere con forza ed immediatezza per cambiare questa situazione, ma è importante almeno avere coscienza chiara dell’indispensabilità della vigilanza e del vaglio da parte di tutti su tutto ciò che viene detto e fatto costantemente.
Non si deve cadere nella trappola, comoda perché poco impegnativa, ma pur sempre trappola, della verità già confezionata, anche quando questa si presenti con l’apparente ineccepibile veste del confronto democratico tra persone e idee. È necessario continuare a pensare controcorrente se si vuole mantenere un minimo di libertà mentale, esercitarsi a pensare sempre il contrario di quello che ci sembra più evidente per verificarne la validità.
La democrazia può e deve basarsi esclusivamente sulla certezza delle regole, sull’affidabilità dei controlli, sulle competenze di coloro cui i compiti e le procedure sono affidate, sulla garanzia del disinteresse personale a favore dell’interesse pubblico.
La scelta dei rappresentanti a queste condizioni, senz’altro importantissima e qualificante, potrebbe non essere vitale, perché comunque la democrazia è garantita dalla scelta dei criteri all’origine. Il governo di uno stato infatti non è un consiglio di amministrazione di un’azienda cui delegare le scelte economiche per raggiungere il massimo profitto, ma il luogo rappresentativo della società nel suo complesso e nel suo particolare, di persone libere ed uguali nei diritti e nei doveri, di donne e uomini in pari dignità e rappresentanza.
La democrazia e la sua corretta gestione solo questo devono garantire. Rifondare un sistema di fiducia reciproca, restituire appartenenza e riconoscimento, arginare le distruzioni ambientali e sociali, garantire una superiore qualità di vita che non sia basata sullo sfruttamento ed il peggioramento di altri luoghi o popoli, assicurare pari opportunità d’accesso al lavoro ed ai saperi ed interventi migliorativi nel sistema dell’welfare, sono tutte finalità condivise e del cui ripristino sentiamo assoluta necessità.
Ora è necessario sapere come tutto ciò possa essere perseguito! Quanto poi alla persona che deve stare al timone e alla sua compagine governativa, la grande garanzia che chiediamo e che devono offrire per guadagnarsi la nostra fiducia, al di là delle loro qualità personali (doti morali e capacità gestionali dovrebbero sempre essere un prerequisito!), è che, ispirandosi a questi principi e muovendosi secondo queste linee, siano sempre pronti al confronto, alla revisione del loro operato ed eventualmente al ritiro in caso di fallimento.
Su questi presupposti si deve essere pronti a lavorare e collaborare per la riuscita del nuovo progetto.
NUMERO /3
Anno 2003, n. 3
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