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L'autonomia non è una figura retorica
 
La privazione dei valori vi ha gettato in un vuoto che vi ha fatto perdere l’orientamento, e vi ha umanamente degradati
(da Lettere Luterane, di Pier Paolo Pasolini).
È possibile che qualcuno abbia già organizzato i funerali dell’Autonomia senza che il popolo sardo ne fosse cosciente? È una domanda che è lecito porsi, di questi tempi.
La nostra regione paga infatti un prezzo altissimo alla stasi culturale e all’incapacità delle forze politiche locali di fornire risposte concrete alle sfide con cui la nostra società deve confrontarsi dagli anni novanta.
La dialettica politica è rimasta per troppo tempo prigioniera di inutili dibattiti per lo più accesi soltanto da snervanti discussioni (assolutamente ignote alla maggioranza dei sardi) sulle riforme istituzionali e la modifica delle legge elettorale. Il vuoto di contenuti che ha segnato la discussione politica è stato caratterizzato dall’assoluta incapacità di ridiscutere sostanza e temi dell’agire collettivo, oltre che dalla mancanza di riflessione sui bisogni identitari e culturali che nascevano sotto una luce completamente diversa in seguito alla caduta del comunismo e alla fine della guerra fredda. La riflessione intorno a tematiche essenziali come la ricerca e la ridefinizione di una nuova qualità della vita (lavoro, ambiente, istruzione, soddisfazione dei bisogni individuali) è stata soffocata dal fondamentale discettare su quale legge elettorale fosse migliore applicare alla Sardegna; si potrebbe dire che si è passati con disinvoltura dalla questione meridionale alla questione elettorale.
Il risultato? Una regione di circa un milione e mezzo di abitanti che moltiplica la sua burocrazia, instaurando, di fatto, tanti centralismi in miniatura. Il federalismo, in Sardegna, l’abbiamo costruito moltiplicando aule consiliari, alla faccia di Kant, Cattaneo, Lussu e Bellieni. Certo, in più ora i sardi hanno otto province; peccato però che non si sia avuto simile zelo e forza per premere in direzione di una diversa divisione dei collegi elettorali in vista delle elezioni del Parlamento Europeo, dove ancora nel 2004 la Sardegna rischia di non vedere nessun rappresentante, dato che i nostri voti saranno per lo più divorati dalla ben più popolosa Sicilia.
Non risultano agli atti discussioni sulla capacità di elaborare un’azione politica in grado di aiutare il popolo sardo ad interpretare non soltanto le problematiche dell’isola, ma quelle più generali dell’Italia, dell’Europa e del mondo. Nessuna dibattito sulla global governace, totale incapacità di riflettere sulla questione autonomistica come momento di elaborazione culturale e di costruzione e crescita di coscienze.
Stupisce, inoltre, la totale assenza, nel dibattito politico isolano, di ogni riflessione sul ruolo della Sardegna nel Mediterraneo, sulla sua centralità geografica che le consentirebbe di proporsi come laboratorio di confronto e interscambio culturale con le culture nordafricane, con notevoli vantaggi non soltanto dal punto di vista della crescita dei popoli, ma anche in favore di un modello equo e solidale di sviluppo economico, ricoprendo in questo modo un importante e strategico ruolo di avanguardia anche a livello europeo.
Negli anni imbarazzanti del pensiero unico, del modello liberista tutto centrato sul profitto e sulla cosiddetta fine della storia, l’idea dell’Autonomia si è rapidamente eclissata, essendo per lo più considerata un residuo paleozoico rispetto a quelle che con enfasi venivano definite “le sfide della modernità”.
Ed è per questo che nel momento in cui si è dimostrato che nuove sfide e nuove cesure storiche emergevano con prepotenza, a sfidare e annichilire recenti e sin troppo fragili certezze granitiche, la politica sarda si è trovata nuda e imbarazzata di fronte alle sue insufficienze. Le problematiche del lavoro, la difesa della dignità e dei diritti di migliaia di lavoratori delle fabbriche, del settore pubblico, del piccolo e medio commercio, la tutela dell’ambiente (che ha visto la mobilitazione del “no alle scorie”) hanno posto al centro la volontà di tornare a discutere, la necessità del riaffermarsi di un pensiero critico dell’autonomia e del sardismo, in grado di ergersi con coraggio e fierezza contro i tentativi semplificatori di certa politica. Alla faccia di chi ha pensato che bastasse sovrapporre la bandiera dei quattro mori sul proprio simbolo per sentirsi federalista e sardista.
Difesa e valorizzazione della lingua e della cultura sarda, in quest’ottica, non devono apparire sfide di retroguardia, ma devono diventare punti di riferimento dell’azione politica. Nessuno chiede che si guardi alla cultura con gli occhi del passato, ma servono capacità di coordinazione e programmazione (si può ancora usare questa parola?). Dove può andare infatti la Sardegna quando manca la capacità di discutere in grande? Troppo volte si cede alla tentazione di dare misere risposte settoriali, incapaci, visto la loro natura, di costruire alternativi modelli di sviluppo in grado di migliorare la qualità della nostra vita.
La capacità di ascoltare con umiltà e pazienza e il saper tradurre in concreto le domande della società sarda rappresentano le sfide che dovranno affrontare i partiti in vista delle elezioni regionali dell’anno prossimo; si capirà finalmente che l’Autonomia non è una figura retorica con cui abbellire la miseria di certi discorsi?
NUMERO /3
Anno 2003, n. 3
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