Basta dare la stura alla piena di amarezza, disgusto e sconforto che ha invaso noi come tutti i sardi coscienti, in questi ultimi tempi, e vengono da sole le parole per dire che mai siamo stati così avviliti e così scoraggiati.
Poi viene da aggiungere un forse mai che diventa quasi mai. Un mio caro amico scomparso aveva rimproverato un compaesano che usava il mai con leggerezza dicendogli: “Guarda che mai vuol dire mai!”. Allora diciamo che forse mai noi sardi, nella nostra lunghissima storia, che gli studi recenti tendono ad allungare sempre più, forse mai siamo stati così proni, così privi di prospettiva.
Non mi riferisco al benessere, o malessere, materiale. Per questo aspetto, dovremmo dire che mai siamo stati così floridi, così sani, anche così ricchi. Non occorrono molti numeri per sostenerlo. Ai miei coetanei, ma anche a quelli un poco più giovani, basta ricordare come eravamo pochi decenni fa. Siamo di gran lunga più ricchi di allora, quando i nostri ragazzi riempivano le navi per emigrare e i padri e le madri non riuscivano a immaginare che cosa sarebbe stato dei loro figli. Dal punto di vista materiale non c’è confronto.
Ma come umore, come cemento morale e sociale, basta guardare a tempi più recenti per sentire pieno il senso di una caduta verticale. Fino a quindici anni fa eravamo combattivi e fiduciosi, convinti che, come i nostri padri avevano preparato per noi una condizione di vita migliore della loro, anche noi lo stavamo facendo per i nostri e, pur divisi sul percorso da seguire e sui mezzi necessari, eravamo fiduciosi, perché nutrivamo, ognuno nel suo partito o nel suo campo culturale, la fiducia nella onestà dei capi e nella nostra capacità di sceglierli, pur con inevitabili errori di giudizio, pur tenendo conto della fragilità umana.
Oggi, rispetto a allora, siamo davvero cinici e disperati. Non c’è uno di noi che sugli amministratori che lui stesso ha eletto non esprima sommari e convinti giudizi che allora avremmo definito, a dir poco, qualunquisti. Non c’è nessuno che non pensi che la condanna di Bossi sui politici del passato sia giustissima riferita a quelli di adesso. Non c’è nessuno che riesca a dire ancora, senza arrossire e senza fare lunghe premesse, che la politica può essere anche nobile, o, per dirla come allora, servizio. Ci si sente ridicoli, se si prova a dirlo, e si ha la sensazione che chi ci ascolta ci giudichi ipocriti o, altrimenti, decisamente imbecilli.
È sconfortante incontrare vecchi compagni o vecchi avversari, nei confronti dei quali nutrivamo affetto e stima o decisa avversione, coi quali abbiamo condiviso esaltazioni e frustrazioni o coi quali abbiamo rischiato spesso di venire alle mani, e ritrovarci a rimpiangere i tempi in cui pure ci pareva di avere un nemico e parlare sconsolati di questi tempi grigi dove non si hanno né amici né nemici e gli unici che ci corteggiano sono i venditori, mentre il resto del mondo ci ignora se non abbiamo nulla da vendere o soldi per comprare. Eppure, non è avvenuto nulla di drammatico nella nostra società. Non sono venuti gli aerei arabi a bombardarci e a demolirci le case. Non abbiamo sostenuto sacrifici atroci, non abbiamo pianto tragedie immani. Semplicemente, lentamente, hanno preso il sopravvento gli imbecilli.
Che cosa intendo per imbecilli è presto detto. Ognuno di noi ha uno, o più, settori dove può esplicare una qualche conoscenza ed è in grado di elaborare un suo progetto, una sua teoria e nel quale ha piacere di muoversi, confrontarsi, o anche competere, confessandosi ignorante e incompetente in tutto il resto dello scibile umano, senza che nessuno possa dargli dell’imbecille.
Ma è, viceversa, un autentico imbecille un chirurgo universalmente apprezzato, capace di interventi miracolosi, che si impunti a sostituirsi all’elettricista nel progettare e realizzare l’impianto elettrico dell’ospedale, mettendo a repentaglio la sua stessa vita oltre quella di tutti quelli che hanno l’avventura di trovarsi nell’ospedale.
E non smette di essere imbecille se, conscio di non essere all’altezza del compito, lo accetta comunque, per compiacere amici e si affida a elettricisti indicati dagli amici che gli hanno dato l’incarico, pur sapendo che l’unica competenza che questi possiedono è quella dividere i compensi con coloro che gli hanno affidato il lavoro. Non smette di essere un imbecille neanche se da tutta la faccenda ha un tornaconto diretto, se cioè una parte di quei compensi vanno a finire nelle sue tasche, perché, ovviamente, nessuno gli può garantire che la prima vittima dei disastri che nasceranno da un impianto pasticciato non saranno lui stesso o i figli o la moglie o i genitori o tutti assieme, parentado compreso. Semplicemente, in questo caso, è un imbecille disonesto. Devo dire che, a mio parere, è più pericoloso l’imbecille onesto, ma sono distinzioni da poco, quisquilie, direbbe qualcuno.
Una certa quantità di imbecilli, delle due specie, c’è sempre stata, è inevitabile, ma, in tempi normali, sono tollerati e controllati dai più capaci, che non si sognerebbero mai di affidare a loro o ai loro amici la loro sicurezza. In genere, poi, i capaci li tollerano perché sono convinti di poterli manovrare e di usarli come utili idioti, come si diceva.
Ma tutto precipita quando gli imbecilli diventano maggioranza. Si riconoscono tra di loro, non hanno nessuna paura reciproca, si confortano nel raffronto della loro stessa inferiorità e si coalizzano molto più in fretta di una équipe medica. In pochissimo tempo hanno messo i loro simili in tutti i posti di controllo, dal consiglio di amministrazione al collegio dei sindaci e hanno modificato lo statuto con norme che vanificano ogni tentativo di sostituirli: niente più concorsi, niente più esami ma solo promozioni per titoli e i titoli sono quelli che essi stessi possiedono o che si affrettano a fare acquisire ai figli.
Per rimanere all’esempio dell’ospedale, è chiaro che a questo punto non c’è più speranza per nessuno. Non c’è più un impianto che funzioni, un primario che abbia sfogliato un libro di anatomia, un infermiere che sappia fare un’endovenosa, un autista di ambulanza che non guidi ubriaco. Gli stessi medici, quando si ammalano, si guardano bene dal farsi ricoverare nel loro ospedale, che anzi cercano quello più lontano e più costoso, e chi non ha altra scelta che farsi curare sul posto, perché non ha soldi o conoscenze o perché è rimasto così idealista da pensare che deve farsi curare in casa sua, si affida a Dio e alle sue gran braccia.
Fino ad arrivare a un Consiglio di Amministrazione capace di fare primario l’elettricista. La Sardegna di oggi è conciata come l’ospedale della favola. Qualsiasi cosa debba o voglia fare un sardo qualsiasi, deve passare al vaglio degli imbecilli. Dappertutto. In ogni ufficio, pubblico, privato, finanziario, turistico, sanitario. Così, non c’è da stupirsi che quindicimila sardi hanno lasciato la loro terra negli ultimi quattro anni. C’è da stupirsi al contrario della tenacia, della ostinazione di molti a rimanere, comunque, a costo di qualsiasi mortificazione, nella loro terra. Con questa opinione della situazione attuale della Sardegna, ho guardato l’ultima vicenda del governo sardo. Per me è il primo segnale confortante che proviene dal palazzo del Consiglio.
Mi pare che il giudizio più diffuso sia di segno contrario. La maggior parte dei sardi ha visto l’elezione del presidente Masala come la difesa estrema dei consiglieri regionali della loro poltrona e delle loro scandalose prebende. “Quando mai” si dice, e io stesso l’ho detto, quando si facevano le previsioni sulla vicenda “si è mai visto un Consiglio Regionale che si scioglie prima del tempo? I consiglieri non rinunceranno neanche a un mese di Bengodi per affrontare elezioni rischiose, che potrebbero lasciarli a casa.” Penso che una parte delle nobili motivazioni di alcuni stia proprio in un atteggiamento di difesa del loro personale tornaconto, ma, in ogni caso, io li ringrazio e penso che abbiano fatto l’unica cosa giusta. Per alcuni poi nutro autentica stima.
Riepiloghiamo. Quattro anni e mezzo fa, un certo Berlusconi decise che a governare la Sardegna per suo conto doveva essere un certo Pili, emerito signor nessuno, bellino e di collaudata telegenia, figlio di un amico del suo antico maestro, tale Bettino Craxi, uno sprovveduto fidato, sicuro esecutore delle sue direttive.
Dalle elezioni venne fuori un Consiglio Regionale un po’ così, né di destra né di sinistra, in maggioranza guidato da Roma un poco da destra e un poco da sinistra. I tentativi per piazzare il proconsole fallirono, per l’ostinazione di qualche vecchio arnese, che, comunque, non era un imbecille, fino a che quel poco che restava di orgoglio sardo e di senso di autonomia non sembrò completamente svanito dall’aula di Cagliari e il bambino, come lo ha chiamato un consigliere regionale, attualmente assessore, non è riuscito a imporsi come presidente. In questo caso, l’elettricista promosso primario.
Un dramma biblico. La Regione sarda non ha più speso una lira di finanziamento produttivo, non ha smosso un progetto, non ha avuto un’idea. Solo proclami propagandistici, spot da magliari. Invece dell’acqua idee grandiose su falde nascoste nelle miniere, grandi discorsi invece di finanziamenti ai pastori in ginocchio per le lingue blu e le lingue immerdate, per culminare in una sorta di acquiescenza all’idea di spostare in Sardegna le scorie del nucleare italiano abortito e l’arrivo a Olbia del principale a promettere milioni di euro per strade. Nel discorso in difesa di se stesso, quando è stato sfiduciato, l’enfant prodige ha messo tra le voci del suo bilancio le promesse del principale, la sua personale bontà, l’incomprensione e l’incomprensibile malevolenza di chi lo aveva eletto.
Ognuno è libero di pensare quello che vuole, ovviamente, e io lo concedo a tutti, ma chi può mi dica se era facile pensare che una maggioranza dai numeri solidissimi, che sembrava composta in grande prevalenza di fidatissimi imbecilli, potesse essere capace di ribellarsi al capo e cacciare la creatura. Eppure è successo.
Grazie ai tre uomini di AN, (dicasi di Alleanza Nazionale, partito nel quale si pensava che l’obbedienza al capo fosse assoluta) che si sono rifiutati di continuare a trascinare la Sardegna e se stessi nella palude della dipendenza totale Grazie a Mariolino Floris e a Roberto Cappelli che hanno risposto da uomini e da sardi alle querimonie del ragazzo offeso e ai ricatti del duce romano e grazie a Giacomino Sanna che ha spiegato con chiarezza che lo scioglimento anticipato del Consiglio, in quelle condizioni, con quelle modalità, a seguito di un diktat imperiale, avrebbe segnato la fine di ogni speranza per il popolo sardo. Grazie allo stesso presidente Masala che si è rifiutato di bombardare la sua patria e ha accettato un incarico difficilissimo. Non so che cosa possono avere offerto all’avvocato Masala, in cambio della sua rinuncia. Sicuramente non gli hanno offerto poco e non gli hanno indirizzato minacce lievi. È certo che ha rifiutato. È altrettanto certo che una giunta minoritaria, sospesa a un filo esilissimo e esposta a venti fortissimi, si è posta in alcune occasioni nei confronti del governo imperiale in una posizione di autonomia e dignità che le giunte precedenti non sognavano di poter avere: vedi la richiesta di restituzione dell’Iva, vedi la posizione per la base di Santo Stefano.
L’hanno fatto per attaccamento alla poltrona? I consiglieri disinteressati sarebbero da cercare tra gli altri, i forzitalioti e i i sinistri che hanno votato contro in obbedienza alle direttive romane?
Ma questi sarebbero da considerare due volte imbecilli, la prima per l’obbedienza supina alle direttive di una potenza esterna, la seconda perché non saprebbero fare neanche i loro personali interessi. A me non pare che siano doppiamente imbecilli. Una volta basta e avanza.
Non che lo scatto di dignità degli altri mi abbia fatto diventare ottimista. Però, mi ritrovo un poco meno pessimista. È possibile, alla luce di queste ultime vicende, un consiglio regionale sardo.
È difficile, ma è possibile. È difficile, perché richiede l’ulteriore coraggio, da parte di chi lo ha dimostrato ora dopo anni di quieto vassallaggio, di superare se stesso e contrapporre ai due poli che si accingono a blindare la Regione con una legge elettorale da briganti un terzo polo che si fondi sul patriottismo sardo. Ma è possibile.
E mi importa poco e nulla se sarà di destra o di sinistra. Come non mi importa sapere se il primario dell’ospedale è interista o milanista (al limite juventino) ma solo se sa e vuole curarmi, così mi sembra poco importante per il destino della Sardegna se chi la guiderà sarà buddista o musulmano o con simpatie protestanti, mentre credo che sarà determinante il suo amore per la Sardegna e la volontà e la capacità di perseguirne il progresso. E che non sia un imbecille.