Per la Sardegna … l’età delle origini si perde nel mondo della parola non scritta”, titolando il capitolo: l’età del grande silenzio.
Come dire che il mondo più autenticamente sardo è un mondo che ha attraversato i secoli con le caratteristiche di una cultura di analfabeti.
Michelangelo Pira ritorna sullo stesso concetto nella Rivolta dell’oggetto a proposito dell’impatto e della considerazione che ha sempre avuto la cultura ufficiale nei confronti delle culture autoctone e in modo particolare di quelle più marginali, che, nel bene e nel male, erano riuscite a resistere, soprattutto nelle zone interne, meno permeabili alle innovazioni di quelle di pianura “La scuola impropria nei documenti scritti è registrata indirettamente sotto la voce analfabetismo”.
Per quanto ci si affidi ancora ad alcuni filoni di ricerca della storia della scuola in Sardegna, si può affermare con certezza che fino agli anni cinquanta - sessanta la formazione organizzata, ossia quella statale, non registrò apprezzabili risultati nella formazione complessiva delle popolazioni, in quanto permanevano consistenti sacche di esclusi dai processi di alfabetizzazione.
Senza negare gli indubbi progressi, da noi, comunque, tutto il processo conservò i caratteri di una naturale e funzionale evoluzione che come Sardi ci ha sempre visto occupare gli ultimi posti nelle statistiche della percentuale di analfabetismo.
Dopo le vicissitudini belliche, lo sforzo generale di ricostruire un nuovo mondo, non trovò le nostre popolazioni pronte e impegnate in questo tentativo, per cui negli anni si pagò a caro prezzo quest’assenza, sia sul versante economico che culturale.
I processi di cambiamento assunsero accelerazioni così violente che chi non ne seguiva le dinamiche ne subì stravolgimenti e condizionamenti rilevanti. Ciò portò le nostre comunità ad una resa incondizionata e nello stesso tempo a una negazione della propria storia e cultura.
L’incontro avvenne non sul terreno dell’integrazione e dell’omogeneizzazione, quanto su un campo di battaglia che alla fine avrebbe avuto un solo vincitore.
Noi sardi non salimmo sul podio. Il dramma fu, al di là della disparità delle forze, del non esserci accorti dello scontro in atto. Ammaliati dalle sirene della modernità, in un processo di autocommiserazione collettiva, per non essere emarginati, ci spogliammo di quanto avevamo saputo difendere e conservare per secoli. Crollarono le barriere. Fummo invasi dagli oggetti, dai mass media e dalla scuola.
Senza opporre nessuna resistenza, anzi.
Il tutto si compì in un processo di pura sottrazione/sostituzione selvaggia, che ci lasciò senza corpo e senz’anima. In un processo irreale in cui il riscatto si poteva realizzare solo col rifiuto, o meglio con la rinuncia ad essere sardi. La scolarizzazione di massa mise a nudo le forti contraddizioni nell’impianto organizzativo della scuola e negli esiti formativi: le differenze linguistiche, venivano viste come inferiorità, trasferendole meccanicamente sul piano sociale. L’impatto fu devastante, in quanto i fenomeni di interferenza fra le due lingue furono clamorosi e difficilmente superabili. Gli insuccessi, fino ad allora latenti, vennero resi palesi e certificati anche dalla scuola. E qui si entra nella storia recente. Una storia costellata da migliaia di giovani che ogni anno registravano e registrano il loro fallimento negli studi, nel totale disinteresse generale.
La pietas del vincitore regalò ai Sardi: Ottana, Sarrock e Porto Torres.
Non è facile ricondurre a sintesi le varie implicanze che originarono e alimentarono l’infinita serie di contraddizioni e lacerazioni che si registrarono nella società sarda. Però sotto l’aspetto storiografico sta diventando sempre più consistente la convinzione che la cronica assenza di una classe politica illuminata sia alla base dei nostri mali. Una classe politica che, spesso asservita ai palazzi di Roma, avvitata su se stessa nella conservazione del potere locale, del tornaconto personale, delle fughe all’indietro, non seppe interpretare i segni del cambiamento per tradurli in opportunità di sviluppo per le popolazioni, in quanto non svolse mai un ruolo culturale positivo. Ancora oggi, l’assenza di protagonismo ricalca i percorsi di un destino millenario che ha caratterizzato la nostra storia.
Persistono come processi direzionali il vecchissimo da una parte e il nuovissimo dall’altra, senza possibilità, come le monadi laibniziane, di un punto d’incontro o di comunicazione.
Manca una cultura della fusione o della coesistenza.
La stessa Autonomia regionale, per incapacità, non fu sostanziata da significative progettualità, ma è rimasta nel tempo uno strumento di meravigliosi propositi, privi di vita.
La speranza è che questa progettualità sia nella mente della prossima classe politica isolana.