Da un lato il forte processo di deindustrializzazione, specie nella Sardegna centrale, il permanere delle distanze nei livelli di reddito pro-capite, nella infrastrutturazione del territorio, nella carenza delle strutture sanitarie, culturali, sociali.
Dall’altro lato un miglioramento degli indici del mercato del lavoro, uno sforzo di elaborazione interessante in materia di contrattazione programmata e, più in generale, di utilizzo della legislazione di incentivazione degli investimenti industriali.Si coglie, tuttavia, netta la sensazione di fragilità del tessuto civile e sociale, più ancora la difficoltà di inserire in modo organico e stabile le politiche di sviluppo economico, sociale e civile del Nuorese in un progetto di assetto equilibrato del territorio regionale.
La crescita di questa parte dell’isola deve essere parte delle direttrici fondamentali di programmazione della spesa pubblica. Purtroppo le scelte di fondo del Governo centrale e della Giunta regionale di centro-destra sono andate in questi anni nella direzione di allargare gli squilibri, non di ridurli.
È vero che la Regione deve far fronte ai troppi debiti, accumulatisi, peraltro, in gran parte negli ultimi anni. Compito di chi governa è, però, di programmare le entrate in funzione degli obiettivi di spesa, cominciando con il rivendicare dal governo le entrate che per Statuto alla Sardegna spettano per una cifra che oscilla fra gli 800 e i 1000 milioni di euro (dai 1600 ai 2000 miliardi di vecchie lire).
Senza risorse finanziarie adeguate non si attuano politiche di crescita; meno che mai politiche di riequilibrio. Va riaffermato il permanere del divario economico, civile e di opportunità, in una parola della disuguaglianza nei diritti, come oggi si dice, fra la Sardegna centrale e la gran parte del Paese e d’Europa. Si tratta di un divario rilevante sul piano economico, civile, sociale: dal valore aggiunto pro-capite (Nuoro con 14.500euro ha meno della metà dei 31mila euro di Milano e il 25% in meno della media nazionale) alla dotazione infrastrutturale (produttiva, culturale, socio-sanitaria) che la colloca all’ultimo posto fra tutte le province italiane.
Più esattamente, fatta 100 la media nazionale, l’indice di Nuoro è di 33,9, cioè un terzo della media, con un valore più alto nella infrastrutturazione economica tradizionale, più basso in quella sociale (circa il 20%), quasi inesistente in quelle avanzate, e oggi decisive, come la rete telematica ed energetica (attorno al 10%, cioè un decimo della media nazionale).
Nell’ultimo decennio, dopo la stasi seguita al venire meno del disegno di sviluppo delineato nella legge 268, dal Nuorese sono venuti impulsi importanti nel definire nuove proposte di sviluppo (Università, legislazione di incentivazione, contrattazione programmata).
I risultati, per lo meno in termini di attenuazione degli elementi negativi sul piano economico e sociale, si sono avuti: la riduzione nel tasso di disoccupazione ne è la conferma. E, tuttavia, in particolare per l’incapacità della classe dirigente regionale di valorizzare le specializzazioni delle diverse aree economiche regionali, si è finito per sovrapporre nel territorio della Sardegna meccanismi finanziari e scelte di sviluppo, facendo dappertutto le stesse cose, con il risultato di indebolire il disegno complessivo in tutte le aree dell’isola .
Anche i dati sull’occupazione vanno letti negli aspetti positivi come negli elementi di debolezza. Intanto derivano fondamentalmente da incrementi in agricoltura (con un calo, peraltro, della produttività del comparto) e nel terziario.
In secondo luogo, dobbiamo sapere che se non si determinerà un incremento più elevato della produzione, l’aumento dell’occupazione sarà comunque fragile perché sarà affiancato da un calo della produttività media del nostro tessuto economico.
Le questioni che, a mio avviso, si pongono nel nostro territorio sono, quindi, due: da un lato l’attribuzione di risorse congrue; dall’altro l’esigenza di porre la questione infrastrutturale, in primo luogo quella a contenuto più avanzato (cablaggio delle reti di trasmissione, energia) al centro dei piani di sviluppo. Pesa, infatti, l’incompletezza della rete stradale e ferroviaria.
Ma pesa ancora di più il fatto che da noi le informazioni viaggino a velocità infinitamente più basse rispetto alle aree più avanzate del Paese. Nelle infrastrutture tradizionali l’handicap è rilevante, in quelle avanzate è abissale. Una strada con più curve crea ritardi di ore.
La mancanza di reti telematiche crea ritardi di anni. Stando così le cose non può esservi prospettiva di crescita duratura. Soprattutto rischiamo di perdere risorse umane, un capitale di professionalità che da noi può tornare se ci sono le condizioni ambientali per una loro collocazione. Da tempo nella teoria economica si distingue fra crescita e sviluppo.
La prima è un fatto quantitativo. La seconda considera l’insieme degli elementi che rappresentano una evoluzione qualitativa del vivere.
La lavorazione di materiali nocivi, l’edificazione selvaggia delle coste, la realizzazione di grosse concentrazioni urbane determinano da un punto di vista strettamente quantitativo una crescita del PIL e dell’occupazione, ma non migliorano le condizioni di vita. Un assetto territoriale diffuso è senz’altro funzionale a un obiettivo di sviluppo, anche se può apparire in contrasto con finalità di pura crescita quantitativa di breve periodo.
La valorizzazione delle comunità locali non risponde, quindi, solo a esigenze di tipo antropologico, ma è la condizione per una crescita che sia anche sviluppo o, come diceva Pasolini, progresso.
Il mio auspicio è che il centro-sinistra che si candida al Governo della Regione per il prossimo quinquennio abbia la capacità e, soprattutto, la volontà di proporre un progetto di sviluppo alternativo rispetto alla fallimentare esperienza del centro-destra, ma anche innovativo rispetto alle pur importanti, esperienze precedenti di governo dell’Ulivo.