Vorrei iniziare tracciando la cornice dentro la quale inscrivere la riposta che tenterò di dare a una domanda così carica di significati. Ai tempi di Leon Battista Alberti, la città degli uomini era una sorta di ecosistema in cui si riflettevano i rapporti sociali e i modi di produzione: era, insomma, l'immagine di un mondo a misura dell'uomo di quei tempi. L'uomo moderno sembra abbia abbandonato gli spazi aperti della città per rintanarsi nei suoi edifici, si tratti di uffici, di negozi o di appartamenti. La città non è più una grande casa.
In un manoscritto inedito di Husserl, proposto qualche anno fa, si parla del corpo e della terra-suolo in cui esso cammina e conosce i suoi movimenti e la sua quiete. È una intuizione nella quale il suolo è percepito e percepibile come unità di esperienze di vita collegate reciprocamente. Con l'esplosione della scienza e della tecnica, i luoghi delle nostre città non costituiscono più suolo, ci appaiono come spazi non vissuti e non vivibili, dove si consumano le nostre impotenze e i nostri assedi.
E tuttavia, la città resta ancora il luogo dove nascono e trovano appagamento i nostri mutevolissimi bisogni, sia che salgano dalla pancia, sia che scendano dalla mente, non avendo più senso la gerarchia fra bisogni primari e bisogni voluttuari. Un piano urbanistico è chiamato a individuare e interpretare quei bisogni, qualunque sia la loro natura, ed a trovare forme adeguate di appagamento. E qui si pone il problema dei contenuti e delle espressioni organizzative, nonché della scelta del soggetto o dei soggetti cui affidare la responsabilità di una tale operazione programmatoria.
In quest'epoca delle specializzazioni, ha assunto un ruolo determinante la figura dell'esperto, al quale si chiede, in tutte le questioni cruciali della vita pubblica, di supplire con la sua parola definitiva all'ignoranza di chi decide.
L'urbanista è o dovrebbe essere esperto in sommo grado nel suo campo, dato che alle conoscenze tecniche accompagna o dovrebbe accompagnare il senso delle cose concrete e una capacità immaginativa che innalza dall'immediato. Ma da quando la città è diventata il crocevia dei problemi dell'intera società, l'Urbanistica si è ridotta ad attività meramente tecnica, indirizzata a costruire strade, ponti e case, ma senza porsi problemi di ordine generale.
Un piano urbanistico, nell'epoca della seconda modernità, da un lato deve fare i conti con le storture e le distorsioni dell'esistente, dall'altro deve cogliere i nuovi bisogni che scaturiscono dalle accelerazioni della storia. I mali che affliggono le città del mondo sono tanti e tutti carichi di effetti devastanti nella loro irreversibilità. Ma le sfide più ardue che attendono l'Urbanistica sono i tumultuosi mutamenti in atto, con le città reali che tendono a diventare periferie di una città virtuale, la città delle telecomunicazioni che, pur non essendo situata in nessuno spazio fisico, incombe da per tutto, come luogo di un potere invisibile, dal cui dominio non ci si può sottrarre.
E tuttavia, paradossalmente, se è vero che la città ha perduto la sua anima con lo sviluppo della tecnica, è proprio in virtù della tecnica che l'uomo e la natura potranno trovare punti di mediazione. Parlare di identità in una prospettiva che vede la città come crogiolo di tutto ciò che si progetta e realizza nei vari campi del sapere è arduo, se non altro perché l'identità resta pur sempre un lavoro, una conquista secondo l'idea di Locke, il quale aggiungeva che molte volte "le nostre idee muoiono prima dei nostri figli, finendo di somigliare a quelle tombe in cui le scritte si sono cancellate e rimane soltanto la pietra nuda".
In una Città con aree compromesse (abusivismo, brutture edilizie), quali sono le soluzioni ipotizzabili?
Il termine "abusivismo edilizio", nell'accezione corrente, è deviante in quanto tende a limitare la sua portata alla trasgressione delle norme scritte nei codici e alle sanzioni che le sostengono, più gridate che comminate. Certamente si tratta di abusi che hanno concorso a deturpare le nostre città, anche per la tacita impunità ( condoni ) che ha finito per depotenziare norme e regolamenti; ma ci sono usi e abusi ancora più gravi, formalmente collocati nell'ambito del lecito, cui sono da ascrivere le rotture e i sovvertimenti che hanno investito le nostre coscienze prima ancora che le nostre città. Il riferimento riguarda i saccheggi delle aree urbane e la furia edificatoria che ne è seguita, sostenuta e osannata in nome del progresso.
Riportando il discorso a Nuoro e dintorni, torna in mente una vicenda illuminante che aiuta a capire il senso delle parole di Ernest Labrousse, quando sosteneva che il "mentale" è sempre in ritardo sull'economico e sul sociale. … Negli anni sessanta, su una zona del nuorese, giudicata a vocazione industriale, era calato un certo imprenditore, reclutato nell'anticamera di un ministero da uno dei nostri politicanti, che aveva il potere di facilitare l'accesso alle famose contribuzioni pubbliche a fondo perduto. Le mire di entrambi erano rivolte all'impianto di un'industria tessile, che avrebbe inquinato la terra e le acque della zona adiacente ai centri abitati dove s'intendeva radicare l'impianto. I responsabili della banca alla quale l'imprenditore si era rivolto per ottenere credito in aggiunta ai contributi promessi, avevano mosso obiezioni proprio in merito all'inquinamento, parlando di lesione dei diritti non scritti delle generazioni future. Il baldanzoso conquistatore, esibendo una monografia che decantava le sue gesta imprenditoriali, aveva posto con brutale spavalderia la scelta fra l'insignificanza di un rigagnolo di acque luride e il progresso portatore di ricchezza. Il credito non gli era stato accordato, con disappunto del politicante e l'incredulità delle comunità interessate che rimpiangevano le ricchezze perdute, dato che l'imprenditore aveva rivolto altrove le sue mire.
La scienza economica fa una netta distinzione fra il "valore d'uso", che misura l'ofelimità o personale utilità ritraibile da un bene, e il "valore di scambio" riguardante il comprare e vendere intermediato dalla moneta. Se torniamo a Nuoro e al processo storico attraverso il quale il borgo iniziale è diventato città, le casupole di Seuna e Santu Predu, pur imposte dalla necessità, nella loro dignitosa povertà erano figlie dei "valori d'uso" o valori dell'anima, mentre le colate dei casermoni che con i loro azzardi di verticalità devastano il colle di Sant'Onofrio, sono figlie del vendere e comporare a dinare.
Si tratta di due universi abissalmente lontani uno dall'altro, entrambi plausibili, tuttavia, nelle condizioni storiche in cui si collocano. Ma è innegabile che là dove vige solo la legge del denaro (valori di scambio ), il territorio, che è poi il deposito di usi, costumi e tradizioni, rischia di sfaldarsi. Il denaro produce denaro, senza più alcun riferimento al tessuto storico, morale, produttivo che per secoli ha rappresentato la ricchezza del territorio e degli individui che vi dimorano. La distruzione del valore d'uso fa venir meno tutti i punti di riferimento necessari per dare alle città e alle nazioni un carattere e una fisionomia materiale e spirituale.
Di fronte al furore edificatorio che ha imperversato anche a Nuoro, la storia ci ha colto in un arresto del "mentale", costringendoci ad assistere impotenti alla violazione dei diritti dei figli dei nostri figli, diritti che appartengono al demanio dell'anima.
Al di là delle opposte posizioni preconcette (ambientalisti-edificatori), quali possono essere i limiti di edificabilità, tra insediamenti abitativi e strutture ricettive, ragionevolmente accettabili per un bene naturale (quale, ad esempio, l'Ortobene), tenendo conto anche del fatto che esistono numerose costruzioni abusive?
Non credo si possano dettare regole fisse in materia, resta l'esigenza tuttavia di trovare giusti rapporti fra interesse privato e interesse della collettività. Proprio la vicenda dell'Ortobene può suggerire soluzioni che contemperino i due interessi, muovendosi per curve di minore resistenza. Si potrebbe ipotizzare un'utilizzazione innovativa di Su Monte, incentrata sul problema degli anziani, tendenzialmente destinato a diventare nodo cruciale nella convivenza in tutte le latitudini del mondo. La vita umana è esplosa clamorosamente per durata e pienezza, ma nella nostra società persiste ancora una rigidità di ruoli, che porta a considerare gli anziani un residuo passivo di un'esistenza ormai conclusa; e non sorprende che nelle società fortemente tecnologicizzate il problema si riduca a come e dove far morire i padri.
E tuttavia la vecchiaia avanza con il passo regolare delle statistiche: i prossimi decenni saranno sempre più dominati dalla popolazione anziana e la lotta di classe tra ricchi e poveri diventerà un pallido ricordo di fronte all'incombente lotta tra vecchi e giovani.
Ma quale territorio rimane ai vecchi in una società in cui, secondo il sociologo francese Claude Kaufmann, l'unità fondamentale del sociale non può più essere definita sulla base del matrimonio, della relazione sessuale, o della pura e semplice convivenza?
Dobbiamo costruire un altro modello concettuale, partendo dalla consapevolezza che il fine dell'invecchiare non è quello di morire, ma di svelare il carattere che ha bisogno di una lunga gestazione per apparire in tutta la sua peculiarità. Un contributo a questo salto di mentalità potrebbe venire da strutture sociali alternative che, superando la "cultura dell'ospizio", offra ambienti umani e culturali dove i vecchi possano esercitare liberamente la saggezza del corpo e della mente dando un altro senso alla loro esistenza di uomini dimenticati.
Il discorso tocca l'intera Sardegna, terra di longevi, ma anche terra che per il suo clima, la sua centralità geografica, e la varietà dei suoi paesaggi ha una vocazione particolare per accogliere anziani di tutte le patrie. L'ipotesi sarebbe di dare vita a uno o più villaggi concepiti non come reclusori, ma come crocevia in cui si scambino idee, progetti e anche attività, dando rilievo all'ingresso dei giovani come portatori del nuovo e bisognosi di apprendere un metodo e soprattutto il mestiere del saper vivere. Villaggi concepiti come organismi viventi, quindi, capaci di crescere ed espandersi e di collocarsi come il luogo dove possono svelenirsi le tensioni delle città di riferimento…
Un villaggio per anziani sull'Ortobene, restituirebbe a Su Monte la sacralità perduta, e risarcirebbe le generazioni future dei diritti che le nostre distrazioni e incurie hanno consentito di violare.
In che misura e in che modo uno strumento urbanistico può incidere sulla qualità della vita, e particolarmente sul substrato socio-culturale?
Porrei due condizioni, una di metodo e una di contenuti. Nel metodo, occorre che il piano urbanistico sia espressione di una coralità di voci e di competenze e che in esso si rispecchino i bisogni e le attese dell'intera comunità, chiamata a svolgere un ruolo di controllo in tutte le fasi. Nei contenuti, se è vero, come diceva Antonio Cederna, che la civiltà di un popolo e di una città si misura dalla quantità e dalla qualità del del verde pubblico, il centro focale di un piano urbanistico, nella nostra epoca, è la restituzione all'uomo di un rapporto autentico con gli elementi naturali. Ci sono tantissimi altri problemi, come l'inquinamento, il traffico, le disumane periferie senza forma e senza storia, che con l'aiuto della tecnica è possibile risolvere in tempi più o meno brevi, ma il misuratore della validità di un piano urbanistico sono la quantità e qualità degli spazi verdi messi a disposizione dei cittadini.