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Il tradimento dei tecnici
 
Io nutro una fiducia forse anche eccessiva sulle possibilità della scienza.
Come Socrate, penso che conoscenza e bontà coincidano e che nessuno sarebbe malvagio se conoscesse il bene.
Ma, ovviamente, sia io che Socrate pensiamo alla scienza grande, all'amore della scienza, la filosofia, la scienza generale, non alla scienza a cassetti alla quale si fa riferimento ai tempi nostri.
Oggi la matematica sarebbe una scienza, la fisica un'altra, la chimica un'altra ancora, fino ad arrivare a sostenere che la sociologia, la psicologia, la cosmetologia, la pubblicità etc. (esiste anche qualcosa tipo l'oggettistica, con i suoi luminari che vengono chiamati in televisione) sarebbero, ognuna in sé, scienza. Forza delle parole! Ogni disciplina, scientifica o non, si spaccia per scienza.
Niente di male, se fosse solo un modo di dire.
La questione seria è che molti cultori di una singola disciplina si comportano come inguaribili campanilisti innamorati del loro rione, o come tifosi di una squadra, e esaltano le loro parzialissime nozioni come verità assolute, che non hanno bisogno di verifiche e che non sopportano raffronti, tantomeno smentite da altre discipline, mentre, da Galilei in poi, dovremmo avere tutti imparato che non è scientifica la ricerca che non sia basata su risultati verificabili e ripetibili, non in contrasto con altri dati riscontrati in qualsiasi altra disciplina.
Non ci sarebbe bisogno del preambolo, se non fosse invalsa negli ultimi tempi la bislacca convinzione che l'Urbanistica è una scienza e che, di conseguenza, la programmazione urbana va affidata in toto ai suoi cultori, agli scienziati urbani, architetti o ingegneri.
Se ritenessi questa convinzione fondata, non mi azzarderei a aprir bocca su una materia a me ignota, ma, lungi dal ritenerla fondata, la penso direttamente responsabile della gran parte dei disastri urbani e sociali degli ultimi venti anni. Questa strana convinzione ha portato ad collocare a capo di ogni centro decisionale tecnici del settore: a partire dal ministero dei lavori pubblici fino all'assessorato all'Urbanistica del comune di Lodine, si è preposto a ogni ufficio un ingegnere, un architetto, un geometra, secondo una logica della competenza che si è spinta fino ad avere Presidente del Consiglio dei Ministri il padrone di mezza Italia (se ha saputo fare così bene i suoi affari, farà bene anche quelli dello Stato).
Quando ero ragazzo, tempo fa, pensavamo, io e altri di scarsa preparazione scientifica, che l'assessore alla pubblica istruzione non dovesse essere un'insegnante, perché sarebbe stato inevitabilmente condizionato nelle sue scelte dalla sua professione quotidiana e avrebbe trovato motivi di imbarazzo nel trattare i problemi scolastici con i suoi colleghi, quando non con il suo preside.
A maggior ragione, lo pensavamo per l'assessore che doveva pilotare le scelte sullo sviluppo urbano.
Pensavamo che sarebbe stato difficile per un assessore ingegnere, o architetto, o geometra, non lasciarsi condizionare nelle sue scelte, nell'affidamento di incarichi, di progettazione o di esecuzione, dalla sua giusta simpatia per i suoi soci di studio o per le imprese sue clienti.
Avevamo evidentemente torto, o siamo comunque rimasti in una minoranza esigua, se in poco tempo quella che ci pareva un'anomalia al limite della illegalità è divenuta la regola aurea: un ingegnere all'Urbanistica, un insegnante alla pubblica istruzione, un medico alla sanità, fino ad inventare un ministero delle grandi infrastrutture al quale è preposto il più grande costruttore italiano.
Ma niente mi impedisce di pensare che avessimo ragione noi se oggi gli stessi tecnici parlano di scelte urbanistiche sciagurate, di centri storici abbandonati, di qualità della vita degradata, per non dire delle inchieste della magistratura sui criteri di affidamento di incarichi, inchieste che partono dal sospetto di mali peggiori della semplice incompetenza.
È vero che non è detto che l'Italia di Valcareggi avrebbe vinto i mondiali se avesse schierato Rivera dal primo minuto, ma è vero che non li ha vinti senza di lui.
Così è vero che ministri, assessori, consiglieri non tecnici, non avrebbero necessariamente operato scelte migliori di quelle dei tecnici, ma è innegabile che è difficile per un ministro resistere alla tentazione di affidare a se stesso, in un modo o nell'altro, la progettazione e l'esecuzione dei lavori pubblici che ritiene indispensabili, ed è difficile che non gli sembrino indispensabili quei lavori per la cui progettazione e esecuzione lui stesso, o il suo studio, o studi a lui più vicini, sono più attrezzati.
Con questo non voglio certo dire che i tecnici non sanno fare il loro mestiere. Voglio soltanto dire che devono fare il loro lavoro come lavoro. Non che non possano occuparsi di politica. Possono e devono. Ma come cittadini, competenti in un settore, che controllano e stimolano l'operato altrui.
La programmazione Urbanistica non è una questione tecnica, ma è materia di competenza della politica, della politica in senso nobile, ovviamente. Arte della politeia, scienza, questa si, della società umana. È scienza dell'uomo molto più della sociologia, che pretende di studiare i meccanismi del comportamento umano come se fossero inevitabilmente legati alla stessa struttura fisica dell'uomo, la politica che parte dall'uomo come soggetto consapevole, e dai suoi diritti più che dai suoi bisogni.
Quando sento porre l'accento in modo particolare sui bisogni dei cittadini, io temo sempre di trovarmi davanti al medico che mi dice: il medico sono io, so io che cosa ti serve, lasciami fare il mio lavoro. I tecnici politici hanno quasi sempre lo stesso atteggiamento. Sanno tutto dei bisogni della gente. Ascoltano con fastidio le osservazioni del cittadino, la sua pretesa di dire la sua opinione persino sui giardini dove vorrebbe portare i figli. Figuriamoci che una demagogica idea di democrazia, nata quando eravamo dominati dai comunisti, si capisce, affidava la gestione delle cose pubbliche a consigli di quartiere, di classe, di istituto, a rappresentanti dei genitori. Si è arrivati a parlare di diritti del malato! La partecipazione dei cittadini alle scelte è vista come una bella teoria di democrazia utopistica e non come la condizione essenziale della democrazia.
Ma in una democrazia, la città è la casa dei cittadini, non solo nel senso che i cittadini la abitano, ma che ne sono proprietari. In ogni casa il tecnico ha la importantissima funzione di prospettare e suggerire migliorie e quello di guidarne l'esecuzione, ma è consapevole che la scelta del progetto deve comunque rimanere prerogativa dei padroni di casa, che non hanno nessun interesse a gonfiare la spesa, a ordinare lavori inutili, a creare stanze che non servono o anditi che non portano da nessuna parte.
Logicamente, se i padroni di casa vogliono fare un caminetto senza canna fumaria il tecnico ha studiato per spiegargli che non si può, ma, sempre logicamente, se il tecnico vuole imporre il proprio modo di vedere sulle posizioni dei letti, i padroni di casa gli revocano l'incarico e lo affidano a uno che sia meno artista indipendente.
Se si fossero tenute presenti le necessità e la volontà del soggetto committente, la cittadinanza, non si sarebbero fatti rioni nuovi con un labirinto di budelli che non si sa dove portano. Gli stessi interventi dell'IACP si sarebbero potuti dedicare a recuperare le casette del centro storico, rendendole confortevoli e lasciando vivere gli anziani nelle loro case e nei loro vicinati, invece di disperderli in rioni studiati come una sovrapposizione di cassetti, senza una piazza per chiacchierare e guardare i bambini che giocano.
Mah! Io di Urbanistica non ne capisco niente. Fosse in me, porrei pochissimi paletti (spazi per le strade, le piazze e i servizi) al di là dei quali lascerei che ognuno si scegliesse la propria vita, mettendosi d'accordo coi vicini.
NUMERO /1
Anno 2003, n. 1
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