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Salve ! Sono Luisi Farina
Signore di incanti!
 
II Suo orizzonte è là verso il Monte, dove fa mostra di sé il Gigante di bronzo tra la selva di antenne e gli spuntoni di roccia; e, quasi ancor prima di farmi entrare nella casa tra le carte e i suoi libri, mi accoglie davanti a quello scenario aspro, che si stende come un anfiteatro. E' domenica e la primavera stenta a presentarsi con la sua variopinta festa. Indicandomi un punto, una vallicola tra le creste, mi butta davanti un brano di ricordo dell'infanzia, una monelleria che risale ai tempi in cui le strade erano piene di bambini, le cui imprese superavano in ardire ogni limite. Quella spavalderia Luisi Farina ce l'ha ancora stampata sul volto e ogni volta che lo incontri sembra che sia rientrato da una bravata appena commessa, con il sangue sempre caldo e con L'eccitazione di un'eterna fanciullezza impertinente.
A pensarci quello scenario è congeniale: non vede il caos dentro il quale è cresciuta Nuoro, se non il costone occidentale dell' Ortobene, che sta lentamente rimarginando una ferita, che, in un'estate di diversi anni fa, sembrò irreparabile. C'è un Dio che protegge quegli alberi e quel verde, andato ad abitare proprio ai piedi del Monte per montare la guardia. E' un guardiano che col passare del tempo è un po' invecchiato: non ha più fretta e si porta addosso la serenità e la sicurezza dei vecchi. Così Luisi Farina guarda il mondo che gli passa davanti come si pub guardare un acquario. Attraverso le lenti che la deformano. Sono le lenti del linguista e del filologo; ma anche quelle dello storico e dell'antropologo. Lo spessore delle sue conoscenze è mercuriale. Inarrestabile. La sua indole da coboldo ha la "vis comica" di coloro che svelano che anche l'infimo gesto ha la stessa grazia insinuante, la stessa eleganza, del gesto superiore. Quella sicurezza che ti da' facendoti sentire a tuo agio e tranquillizandoti te la toglie all'improvviso, quando scompare dal luogo nel quale pensavi di averlo colto e di essergli vicino, per ricomparire in un altro punto; lontano e inarrivabile. Come l'acqua, che nasce nel sole e nella luce e poi scompare nelle viscere della terra, per ricomparire di nuovo agile e luminosa. Luce e ombra. Colore. La sua mente prende tutte le forme, sempre sinuosa e avvolgente. "Thélghein" dicevano i Greci per "Incantare" e attribuivano questa qualità a Ermes, fratello rivale di Apollo, per le sue capacità di rappresentare ciò che l'ordine apollineo non riusciva a rappresentare. Signore di Incanti e di Magie. Lo incontrai per la prima volta in casa di Giuseppe Frogheri, noto "Peppe Loru", un altro grande nuorese, uno di quei fiumi profondi che trasportano in silenzio sotterraneo una grande massa di acqua verso chissà quali fertilità sconosciute. Mi ricordo che non mostrava la mia stessa assorta meraviglia di fronte alle stupende e sottili architetture di colore del suo geniale amico pittore; forse perché gli erano ormai familiari. Ma era tutto rivolto verso di me, poiché lo aveva incuriosito la consonanza del mio patronimico con le sue geometrie interiori: - De Cales ses? Chi fuor li maggior tui? L'immediata delusione che seguì, quando venne a sapere che i miei ascendenti erano solo posadini e che il mio cognome esulava da queste geometrie, spense la luce viva del suo sguardo. Ma la nobiltà dell'uomo lo sollecitò a raccogliere il dialogo caduto e anch'io mi sforzai di far rientro in quella circolarità all'interno della quale viene concepito il mondo dei nuoresi (come nella sacralità del fuoco che non deve spegnersi mai), identificabile nel villaggio come centro dell'universo. In altri termini io spezzavo l'armonia mundi" con la mia presenza "estranea". Perciò cercammo radici comuni nelle allocuzioni di cui ogni buon sardo va orgoglioso, perché in esse identifica la parte profonda del "sé", i moti dell'animo, non quello individuale: ma sempre e soltanto del villaggio - mondo, che ciascuno di noi porta dentro.
Il farinata "Poikilométis" non mi permise (aimé) di fare domande o di sciorinare il mio misero questionario da intervista. Sono riuscito solo a prendere una infinita quantità di appunti, quasi indecifrabili a causa della fretta con cui cercavo di fermare quel fiume in piena di parole, racconti, aneddoti: ascese discese, fughe in avanti e ritorni all'indietro. Questo era il diagramma del flusso strapotente della sua affabulazione-fiume. Mi ha condotto per mano dentro il mondo dei caprai e dei porcai, spiegandomi le differenze tra "ùberu" e "pisturra", essendo il primo termine significativo di mammella caprina e il secondo di quella porcina. Ma questo è un pretesto: l'uccello marino con la leggerezza dell'aria si libra in volo seguendo i fili del vento. Passiamo al substrato linguistico protosardo su cui avevo preparato una domanda feroce. Ma mi brucia e mi smarrisce dietro la scia della sua barca. La conta dei caprai: come fanno i caprai a contare le loro bestie, anche se sono in gran numero: per "redes", cioè ambiti parentali (madre figlie - nipoti etc.). Adesso capisco il "De Cales ses?" del primo incontro con lui a casa del Frogheri!
Azzardo una domanda. Bruciato di nuovo. "Tartanzas", idest chiusure straminee. Ma il discorso omerico è infarcito di un gustoso episodio sul padre del compianto Gonario Pinna. Gustoso davvero. Non c'è tempo. Il gabbiano ha già annusato un'altra aria lontana: un refolo che viene da oltre le "prode retee". Così te lo ritrovi dappertutto questo folletto, che ti sorride, deride e ti invita, senza mai smarrire la capacità di tirarsi dietro nella foga del suo eloquio i mille gorghi che la straripante piena forma attorno alle infinite sporgenze, alle cose, alle intuizioni e lampi improvvisi; e ognuno di quei diverticoli può diventare una strada maestra, poiché in tutte le argomentazioni riesce a tenere il timone.
"Thélghein", capacità d'inventare e di fascinare, introdursi nell'animo dell'ascoltatore e di suscitargli un'infinità di immaginazioni. "Pupurru" o "ammuntu", ossia spiritello, coboldo faustiano.
Il gabbiano adesso vola ad ali spiegate verso le contrade dell'antica Nuoro, dove troviamo il mitico Turuddone, il pluridecorato miles, che si dice avesse salvato il duce non si sa in quale evento di storia patria. Ed entriamo nell'antico rione di "Sa Serra", che comprendeva Santu Predu e il sottoquartiere di Irillai, Su Servadore o Cortissusu, una sorta di crocevia tra i vecchi quartieri nuoresi. E' nato lì, in un giorno di primavera dell'anno 1910. Davanti alla soglia della sua casa ci soffermiamo perché dobbiamo veder trascorrere una moltitudine di contadini, pastori, preti e gente di ogni sorta con i quali si è mescolato per gioco o per inganno, intrigante, "poikilometis", come quando, comandante dei Cavalleggeri e signore d'incanti, correva a briglia sciolta con i suoi commilitoni ubriachi per gli stretti viottoli dei paesi del dolce vino dal colore dell'oro nel Campidano di Oristano, perdendo i berretti delle divise.
Con la sua mente variopinta è entrato nel variegato mondo di coloro che si occupano di linguistica sarda. Fonetica, ortografia, sintassi, mille questioni, mille punti di vista. Era il mondo adatto a lui. Con questo mondo ha dialogato, litigato. All'interno di questo cenacolo ognuno ha la sua verità; ognuno parla senza le chiunque si perderebbe. Non lui, che nei nodi del pensiero si muove a suo agio e sa sfruttare perfettamente i doni del caso e i dati dell'imprevisto, tutto ciò che passa, si muove, appare e scompare come la nebbia e la brezza d'autunno. Il parametro non è la verità; neppure quella velata eraclitea; ma il caso, appunto, e l'imprevedibile.
Il dio Ermes a un certo punto consegnò la cetra a suo fratello Apollo, il dio che aveva cancellato le tenebre della "feconda notte", per averne in concambio cinquanta vacche, una bacchetta d'oro e la profezia delle vergini- api e da allora la sua voce venne compresa attraverso quella apollinea di suo fratello. Rimase protettore della sapienza esoterica e della medicina, potente guaritore e maestro di "phàrmacoi". E quando, infine, il dio accompagnò il re Priamo nella tenda di Achille, lo invitò a fare opera di conciliazione tra i due popoli in guerra. Evidentemente anche lui aveva una verità, che non era una verità ordinata dentro precisi confini, ma qualcosa che apparteneva all' "archeus terrae", lo spirito dell'universo, la sostanza nella quale il Faust vuol bagnare il suo petto nel rosso dell'aurora, convinto che sia possibile penetrare nell'essenza dell'universo, nella quale le cose sono intessute l'una nell'altra e nella quale le essenze celesti come api passano dal cielo alla terra risuonando armoniosamente. E lì davanti all'aurora, ai piedi del monte, lo possiamo trovare per chiedergli il vaticinio delle vergini api. Non sperate, però, di avere un'intervista da lui, perché rimarreste delusi.
NUMERO /3
Anno 1991, n. 3
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