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La legalità, ombra pallida della giustizia
 
La distorsione della forma nell’epoca della globalizzazione
Il tema della legalità oggi deve essere sviluppato a partire dal magma di significanze in cui bolle il mercato e la democrazia. Stravolgendo il senso della politica coniugandolo sul ritmo del mercato, questo nostro tempo ci getta addosso il valore della legalità privato della sua autonomia filosofica. In che senso e in che modo? Il tema della legalità assume un nuovo corpo ontologico se pensiamo che alle spalle della globalizzazione dei mercati c’è il venire meno dell’autonomia della politica, decaduta e riciclata in un vischioso intreccio di connessioni che l’hanno degradata a funzione di servizio. La politica in altre parole serve non alla propria tavola ma a quella di altri commensali. Il discorso della legalità investe scenari ben più complessi, in cui la politica non è sola protagonista. Quando economia, politica e comunicazioni di massa si incarnano fino a radicarsi nell’orizzonte del ramo esecutivo del potere allora qualcosa di veramente grosso avviene ed è già avvenuto. Senza scomodare l’immagine ormai sbiadita nella caricatura del Leviathan, c’è in tutto ciò un forte richiamo a una sceneggiatura della realtà già scritta da Hobbes. Rimanendo all’interno del discorso sulla giustizia, è necessario sottolineare l’incidenza sulla bilancia della coscienza civile contemporanea dell’equivoco persistente tra giustizia sostanzialista e giustizia formalista. In una società integralista il confine tra diritto e morale non solo non risulta definito, ma è costitutivo del fatto che il diritto formalizza quanto la morale (o la religione) giudica sostanziale. Nei regimi integralisti ciò che può essere detto e fatto è definito politicamente dal potere e la ragione normativa ha la funzione di fissarne giuridicamente gli aspetti procedurali. In una società non integralista come la nostra - o che perlomeno non si definisce integralista - questo equivoco viene bandito, ma solo all’interno di una tematizzazione culturale del discorso. Perché nell’Occidente che mena vanto della sua tradizione politico-filosofico la prassi non è più quella di definire ciò che è ontologicamente “giusto”, ma è diventata quella di calcolare ciò che è lecito. La santificazione della verità processuale ha modificato sostanzialmente la forma giustizia, ma non fino al punto di annichilirne la presenza. L’ombra della giustizia continua a prolungarsi dentro il discorso della politica, ma è solo un’ombra: ci si comporta come se esistesse ancora un oggetto che produce quell’ombra e ci si nasconde il fatto che l’unico oggetto riconoscibile è quell’ombra. Convive dentro una conflittualità assorbita dalla contingenza politica il dilemma tra “ciò che è giusto fare” e “ciò che ho il diritto di fare”.
Scrive Giovanni Cosi che “la nostra cultura appartiene da tempo al gruppo di quelle che hanno deciso di delegare la gestione dei conflitti sociali al diritto e ai suoi strumenti formali di decisione delle controversie”.
È il formalismo inteso come distorsione semantica della forma. Ed è il modello che si sta imponendo da tempo e di cui il berlusconismo risulta esserne interprete italiano (globalizzato e globalizzante) d’avanguardia.
Il recente volume di Giorgio Bocca, Piccolo Cesare, sintetizza efficacemente il meccanismo e ci presenta questo Berlusconi come l’icona del nostro tempo, caratterizzato dall’arroganza del potere e del mercato, dalla violenza della globalizzazione mistificante, che fa cioè del suo interesse personale un astratto avamposto della Politica delle Libertà, una distorsione strumentale dell’universalità dei valori. Sull’imposizione di questa deriva formalista dell’idea di Giustizia giocano quindi forze globalizzanti che riducono il nostro presidente del consiglio ad icona appunto, burattino ed umano di un gioco teatrale globale che interpreta gli esseri umani come strumenti astratti e sottratti ad una finalità universale. Scrive Baudrillard che “quando l’umano diventa unica istanza di riferimento e l’umanità immanente a se stessa poiché ha occupato il posto di Dio morto, l’umano regna ormai solo, ma non ha più una ragione finale. Non avendo più un nemico, lo genera dall’interno, e secerne ogni genere di metastasi disumane” (La violenza della globalizzazione, “Le Monde Diplomatique”, novembre 2002). Il globale quindi violenta il singolare nelle sue forme, distrugge il suo istinto universalizzante scoprendone la tensione particolarizzante. Globale è quindi il contrario di universale, perché significa imporre a tutti il particolare vestendolo da universale. Il globale non si interroga più su che cosa è - ontologicamente - universale, ma semplicemente si occupa della formalizzazione universale di un interesse particolaristico. Nel medesimo contesto culturale ma sul fronte giurisprudenziale Roscoe Pound aggrediva la cosiddetta “sporting theory of justice” sostenendo che il formalismo giuridico incoraggia un uso strumentale del diritto. I richiami formalistici all’etica della maggioranza (che decide comunque e anche contro la minoranza) e quindi la mostruosa interpretazione di una legalità estranea alle domande universali della giustizia, stanno dentro questo travestitismo culturale. Scopriamo così che le idee fondanti della nostra democrazia (insieme alla giustizia, la libertà e l’uguaglianza dovremmo dire anche l’ambiente e la cultura) e che definiscono le coordinate valoriali della legalità sono tradite nell’esercizio procedurale, perché nel gioco dell’imposizione della propria libertà è proprio il valore della libertà che viene distrutto.
Ecco quindi perché oggi le politiche culturali devono tenere conto del mercato, che in quanto tale è selvaggio. Regolamentare vuol dire imporre un ordine e quest’ordine non può essere definito dall’ordine del particolare. L’ordine è dentro il riconoscimento e l’emergenza dei valori che fondano la democrazia, non certo dentro il vuoto di parole in sé vuote come globalizzazione e legalità. È il contenuto di queste che interessa, perché quando appunto significano estensione e imposizione di interessi parziali l’uno e l’altra diventano mostri da combattere, Leviatani che divorano le voci di coloro che richiamano l’attenzione sulla portata universale delle nostre scelte e delle nostre decisioni.
NUMERO /4
Anno 2002, n. 4
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